24 febbraio 2024
In principio al FAI interessavano più le pietre delle anime. Sia delle anime che furono che di quelle che sono e saranno.
Era “storicamente” giusto; il FAI era nato dall’urgenza di passare dalle proteste e dalle proposte ai fatti concreti per salvare dalla dimenticanza e dall’avvilimento fisico, culturale e sociale “pezzi” di un Paese dove il Patrimonio storico, artistico e paesaggistico era ancora gravemente in pericolo.
Mancava una coscienza diffusa del suo valore, del suo ruolo sociale ed educativo, della sua delicatezza e della gravità della sua eventuale perdita. Chi si interessava davvero a esso era (parliamo del trentennio fra il secondo dopoguerra e gli anni ’80) uno sparuto manipolo di intellettuali e benpensanti il cui nobile e fecondo crogiuolo era Italia Nostra.
Come si sa da una sua costola 49 anni fa, appena un anno dopo la nascita del Ministero per i Beni Culturali, nacque il FAI; significativa contemporaneità quella che in quegli anni vide Stato e Società civile uniti dalla medesima consapevolezza e dalla medesima necessità di agire con un’urgenza e con una concretezza che non ammettevano altri indugi.
Il FAI iniziò a fatica; nel ’77 Emanuela Castelbarco donò al FAI (forse un po’ dubbiosa perché quasi costretta dall’insistenza di Giulia Maria Crespi) il poderoso Castello di Avio che domina l’Adige sulla strada per Trento; il trecentesco, imponente Palazzo Baronale, già vittima di un crollo rovinoso nei primi decenni del secolo, rischiava di sparire del tutto anche a causa del fatto che i proprietari stessi lo avevano privato del tetto (subito rifatto dal FAI) perché non fosse volume tassabile; nel medesimo anno la stessa Giulia Maria (a sua volta convinta dalle insistenze di Renato Bazzoni e di Franco Russoli) comprò e, lo stesso giorno, donò al FAI il Monastero di Torba, la cui possente torre romana ricca di rarissimi affreschi longobardi sarebbe, dopo 15 secoli di storia, di lì a poco crollata, divorata da un’edera secolare che ne divorava le malte. Dieci anni dopo fu un intervento di emergenza anche quello a Villa Della Porta Bozzolo, nei pressi della sponda lombarda del Lago Maggiore; la facciata era in agonia, il fastoso giardino barocco a terrazze scivolava verso valle mentre le sculture rovinavano a terra smangiate dai licheni e i soffitti a cassettoni dei saloni affrescati, ma ormai completamente vuoti dopo anni di razzie dei ladri, marcivano (prima dei restauri del FAI) per l’acqua che da decenni si infiltrava dal tetto; se dai tetti di Villa Bozzolo entrava l’acqua, da quelli del Castello della Manta entrava addirittura la neve!
L’unico intento di allora era salvare questi monumenti…; non c’era tempo se non per occuparsi di pietre e tegole che, nello stato in cui si trovavano, rischiavano di far sparire la storia; in quei momenti sembrava essere un corollario il pensare anche a un coinvolgimento emotivo e culturale del pubblico.
Ricordo bene una discussione con la signora Crespi quando, nel valutare una possibile nuova acquisizione, io misi in dubbio che potesse interessare a tanta gente; la risposta lapidaria fu «anche se non venisse nessuno non me ne importa un fico; ma va salvato».
Il restauro fisico era IL FINE dell’azione! La sopravvivenza delle pietre era LO SCOPO. Sembrava giusto così; era quella la prima urgenza indifferibile; l’apertura al pubblico – ovviamente contemplata – era ancora l’inevitabile e logica conseguenza dell’azione di salvataggio che, in un certo senso, giustificava il fine collettivo, ma che non lo era.
Anche alcuni restauri – a giudicarli col senno di poi – erano progettati e realizzati senza pensare anche a ciò che il pubblico avrebbe capito … erano gli anni (’70/’80) in cui il restauro era visto anche come un intervento di cambiamento, come una evoluzione (o se si vuole un “ritorno” al passato) nella storia del monumento; come un gesto lecito e forte del presente che, senza tanti complimenti o scrupoli, aggiungeva o sottraeva a quella storia e a insindacabile giudizio del proprietario e dell’architetto, capitoli che alla fin fine ne cambiavano i connotati, secondo logiche il più delle volte personalistiche più che storicistiche. Anche nel FAI dei primi anni c‘era una certa mancanza di sensibilità e spesso di umiltà verso la storia. Autocritica? Direi meglio: critica rilettura. I nostri restauri, per esempio, all’interno dell’Abbazia di San Fruttuoso furono figli di quegli anni e di quella logica; e posso dire, perché ero già al FAI, che fu anche la Soprintendenza di Genova a stimolare interventi che oggi giudichiamo del tutto inappropriati (e che ci apprestiamo a sanare entro il 2025), come per esempio lo scavo lasciato aperto con le sepolture a vista nella cappella dei monaci (una specie di immensa, orribile e incomprensibile bocca sdentata), o le colonnine del chiostro liberate solo a metà dagli intonaci ottocenteschi secondo una intellettualistica logica di “par condicio”; per non parlare del fatto che, liberata del tutto la colonnina romanica dall’intonaco che la celava, è stato in un secondo tempo sovrapposto solo a metà della colonna – ma non al capitello – un nuovo intonaco del tutto inventato – e come si disse “più mosso” – che contiene residui di ardesia; quindi un eccezionale doppio falso.
Una prima riflessione a questo punto: dopo che nel 1992 il FAI sentì l’esigenza di una modifica statutaria che stabilisse come «l’educazione e l’istruzione della collettività alla difesa dell’ambiente e del patrimonio artistico e monumentale italiano» fosse «lo scopo esclusivo» della Fondazione (articolo 2) e che questo scopo dovesse essere raggiunto ATTRAVERSO «interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio», è oggi assolutamente chiaro al FAI che il restauro di un monumento architettonico o paesaggistico non è IL fine ma solo il primo, fondamentale, delicatissimo MEZZO per consentire la realizzazione dello scopo: educare la collettività alla comprensione – vorrei dire all’innamoramento – del patrimonio e del paesaggio.
Il nostro approccio è dunque cambiato evolvendosi verso un servizio non solo alle pietre ma anche, e soprattutto, alle anime e agli intelletti di quanta più gente possibile.
Se il restauro continua ovviamene a essere per sua natura ANCHE una complessa operazione tecnica, architettonica, ingegneristica, agronomica e quant’altro sia necessario per mettere un monumento nelle migliori condizioni per affrontare un lungo futuro e nuove funzioni, esso è da noi oggi considerato PRIMA DI TUTTO la prima e fondamentale operazione culturale ed educativa della Fondazione.
Attenzione però! Se il restauro non è il risultato di una preventiva e approfondita operazione di conoscenza, il risultato sarà fallace!
La prima, lunga, attenta, profonda, pignola, appassionata attività deve essere quindi lo studio lungo e approfondito della storia e della identità consolidata del monumento e contemporaneamente di chi lo ha voluto, di chi lo ha progettato, costruito, decorato, arredato e ornato di giardini; di chi lo ha abitato e gestito e di chi ha deciso di donarlo al FAI perché fosse, ci auguriamo, il suo possessore finale. Va da sé – naturalmente – che se le condizioni di conservazione sono al momento della donazione così gravi da pregiudicarne la sicurezza, alcune operazioni vanno fatte senza troppi indugi; ma solo quelle!
Poi ci si ferma e si studia, si chiede, si ascoltano sia i luoghi che le persone, per essere in grado di capire l’anima e l’identità dell’oggetto delle nostre cure e, solo dopo quindi, poter iniziare a progettare.
Le visite, i sopralluoghi di persona da soli e insieme a esperti e ai colleghi responsabili delle diverse funzioni devono essere tante e ripetute; il luogo va visitato e rivisitato, visto e rivisto finché non lo si conosce nel più recondito andito; finché non si rivela, parlandoci esso stesso e consentendoci così, di aprire con esso, un dialogo; un lungo e complesso dialogo rivelatore e costruttivo; non si parla solo con gli esseri umani! Si parla anche con gli esseri inanimati quando essi hanno così tanto da raccontare! Ogni porta va aperta, ogni cantina, ogni solaio, ogni piccolo edificio accessorio; ogni sentiero va percorso, ogni cancello va aperto così come ogni cassetto, ogni stipo, ogni anta con una inesausta curiosità di sapere; con un inesauribile e quasi perverso desiderio di possedere: storia, segreti, corpo e anima di quel posto.
In un restauro il lavoro davvero preliminare non è solo quello dell’architetto o dell’ingegnere ai quali è affidato il rilievo fisico dell’oggetto indispensabile per la sua conoscenza materiale, ma quello dello storico che diventa il garante della correttezza del restauro se si vuole che esso sia davvero un’opera di conservazione di una testimonianza culturale evitando con cura il pericolo di libere e facili interpretazioni. Bisogna, per quello che è possibile, impadronirsi della storia, dei gusti, dello stile di vita e delle abitudini della famiglia, degli individui, della collettività che visse, abitò, lavorò in quel luogo e in quel contesto; fossero i salinieri delle Saline Conti Vecchi di Cagliari o il conte Valperga di Masino Vicerè di Sardegna e i suoi discendenti, fossero i pastori dell’Alpe Pedroria in Valtellina o i monaci grecofoni dell’Abbazia di Cerrate piuttosto che le monache longobarde di Torba o le famiglie contadine che in quel monastero, dopo di esse, ci vissero fino agli anni ’50 utilizzando come fienile la chiesa romanica.
Un lavoro di scavo, conoscenza, indagine preciso e inflessibile che deve proseguire finché si ha la sensazione di sentirsi in una sorta di sintonia umana e culturale, quasi psicologica – quasi una identificazione! – con l’artefice o gli artefici dell’oggetto delle nostre future cure.
Scavo culturale, ma spesso anche archeologico come è stato fatto a Villa dei Vescovi, a Torba, a Cerrate; indagini d’archivio ma anche umane; storie antiche e recenti, semplici e complesse, di protagonisti o di uomini e donne apparentemente vissuti nell’ombra… Come non ricordare quell’intervista a Umberto Martella ultimo e anziano di una genia di contadini vissuti nella Cerrate non già dei monaci ma in quella agricola otto/novecentesca dell’olio e del tabacco! Lo invitammo a raccontarci i suoi ricordi di quando ragazzo vi abitava con genitori e fratelli e alla fine, nell’andarsene, si voltò verso la chiesa e mandò un bacio; «a chi mandate un bacio Umberto?» gli chiesi; «alla Madonna!» mi rispose, come se fosse del tutto ovvio; ma la sua Madonna con il bell’altare cinquecentesco che la conteneva non c’era più perché un restauro integralista e irrispettoso degli anni ’70 l’aveva senza tanti complimenti eliminata in quanto giudicata una traccia cinquecentesca che inquinava, a dire dell’architetto Minissi, l’ambiente romanico della chiesa; grazie a quel bacio, lanciato con la mano a una Madonna che nel suo cuore c’era ancora benché non ci fosse più, avemmo la certezza che quell’altare alla Vergine che, come d’abitudine in tutte le chiese di rito greco, era stato costruito alla terza colonna della navata, andava ricostruito! Della sua esistenza le immediate indagini archeologiche e archivistiche dettero conferma; se non avessimo parlato con Martella, se non ci fosse stato quel bacio non è detto che ci saremmo arrivati.
Tutto ciò, come ho già detto, sulla base del principio che prima ancora che restauratori siamo conservatori; conservatori delle testimonianze multiple, difformi e rappresentative della nostra storia comune perché non solo la loro sopravvivenza fisica e anche spirituale sia assicurata ma soprattutto perché esse si raccontino con chiarezza e, per quanto possibile con immediatezza, per essere vive, emozionanti e concrete testimoni del tempo e della cultura che le generarono. Se restauro ci deve essere (e non è detto che sia sempre indispensabile: il Memoriale Brion di Altivole capolavoro di Carlo Scarpa, per esempio, ci è giunto in perfette condizioni!) esso deve essere quindi compiuto nel pieno rispetto sia della funzione storica e sociale che quel luogo svolse dal momento in cui nacque, sia dell’identità, del gusto e della personalità di chi decise di affidarlo al FAI.
Ma tutto questo detto, eccoci alla domanda cruciale: in che modo una corretta opera di conservazione (e dunque anche di restauro) diventa in se stessa, anche senza bisogno fin da subito di un intermediario narratore (guida, video o podcast che sia), il mezzo perché i suoi contenuti storici, culturali e sociali siano così chiari da iniziare a essere compresi da chiunque, pur a seconda delle possibilità di ognuno, diventando così un primo, immediato, e forse anche inconscio, veicolo di educazione culturale? In che modo un’opera di conservazione è essa stessa il primo, fondamentale e illuminante atto di valorizzazione? Cioè del raccontare qualcosa in modo da esprimerne completamente le caratteristiche?
Condizione essenziale per il restauro di un monumento che abbia una funzione educativa (altro è se una antica villa diventa un albergo o una chiesa un museo o una cascina un ristorante… tutte trasformazioni lecite se operate con rispetto, insisto parlando dei restauri del FAI), condizione essenziale, dicevo, è il pieno rispetto della funzione originaria di ogni luogo, che deve essere trasmessa da ogni possibile dettaglio in modo che essa sia evidente a chiunque sin dal primo istante in cui se ne varca la soglia: una casa è una casa, una chiesa è una chiesa, una cascina è una cascina, un palazzo è un palazzo; e di conseguenza noi conservatori/restauratori del FAI di volta in volta siamo preti, siamo pastori, siamo monache, siamo ricchi industriali, siamo gente comune, siamo contadini, siamo principi…; una reggia come il Castello di Masino è una reggia con le sue grandeur, le sue “pompe”, con i giusti ruoli dati a tutto ciò che concorre a rendere l’abitazione di una delle più illustri famiglie italiane il luogo deputato a esprimerne il rango e il ruolo sociale: quello di un Vicerè del Regno di Sardegna (Carlo Francesco II Valperga di Masino) e dei suoi discendenti; una casa della media borghesia di provincia come Casa Macchi a Morazzone deve rappresentare la dignitosa e appartata vita quotidiana di una famiglia parsimoniosa, che tutto conserva e nulla spreca, restia per morale ed educazione a ostentare lussi che non le appartengono ma che rispetta quei ritmi, quelle convenzioni sociali e quello stile che la innalzano un poco al cospetto della società del piccolo paese in cui abita; una chiesa è una chiesa, è un luogo dello spirito ove anche chi non crede può entrare e sostare nella penombra e nel silenzio a meditare; una chiesa romanica come l’Abbazia di Cerrate non è il museo degli straordinari affreschi bizantini che la decorano, non è un monumento che deve raccontare gli stilemi della cultura romanica che la vide nascere; è una chiesa, dove il nostro restauro, dopo quello di strutture a affreschi, è stato pensato anche per riportarvi le funzioni religiose domenicali e dove nella navata, da noi trovata vuota come l’atrio di una stazione, sono state rimesse panche e sedie per i fedeli o per chi vuol sedersi a gustare il piacere, ormai così raro, del silenzio?
Una gran villa urbana della ricchissima borghesia milanese come Villa Necchi deve esprimere in ogni dettaglio il ruolo sociale di chi, venuto dalla provincia per frequentare quell’alta società di cui voleva far parte, si era rivolto all’architetto più trendy del momento: Piero Portaluppi; un contesto che oggi come ieri deve stupire chi ne varca la soglia anche per il ruolo che le consolidate liturgie del gran teatro della vita mondana milanese degli anni ’30 assegnavano alla funzione dei singoli locali dove ogni arredo e ogni oggetto d’uso comune – dai servizi di piatti e bicchieri, alla biancheria ricamata da Olga Asta, alle argenterie e ai vermeil – deve imporsi all’occhio per preziosità e gusto, mostrando non solo di essere stati usati fino a poco tempo fa ma quasi di essere pronti per essere usati ancora domattina nel caso che le sorelle Necchi redivive rientrassero in casa loro dopo una bella crociera; tutto deve essere più vero che verosimile!
E così, ovunque e sempre laddove si può, con ogni dettaglio al posto giusto per consentire a ogni luogo che da se stesso racconti la sua storia, con le sue parole, con i suoi accenti, con la sua lingua forbita o con il suo dialetto, con le sue semplicità o con i suoi diversi fasti.
Chi entra in una casa, sia essa Villa Necchi o Casa Macchi deve sentirsi più un ospite invitato dai proprietari che un visitatore pagante; la sua reazione emotiva sarà del tutto diversa; e diverse le ricadute anche inconsce…
Per far sì che questo avvenga, il cosciente e capace conservatore/restauratore – dopo aver naturalmente messo in sicurezza tetti e impianti e aver dotato il luogo di quei servizi per il pubblico un tempo non necessari (biglietteria, shop, servizi igienici, aule didattiche, spazi per il racconto, etc) – deve far sì che sia garantita la totale armonia tra loro di tutti i dettagli costruttivi e di tutti gli arredi che formano quel contesto in rapporto al gusto dell’epoca e della famiglia o dell’individuo che ne fu l’artefice, con cura evitando nelle sale storiche e nei giardini i segni dei giorni nostri se non quelli proprio indispensabili (come per esempio le segnalazioni delle vie di fuga); e poi deve essere garantita l’armonia tra il contesto stesso e il tono e lo stile con i quali verrà poi illustrato e raccontato, con altri mezzi, al visitatore. E di quest’altra fondamentale funzione (l’altra metà del lavoro) parlerà più tardi Daniela Bruno.
Tutti gli elementi che compongono il contesto devono, quindi, far parte di uno stesso tessuto connettivo che deve parlare il linguaggio della sua epoca e non quello della nostra; se la sua lingua, il suo tono di voce, la sua sintassi avranno tutti la medesima inflessione e parleranno spontaneamente lo stesso linguaggio, la voce risulterà chiara e il racconto immediatamente comprensibile; se invece alcuni elementi, alcune parole o accenti o addirittura frasi parleranno la lingua dell’operatore contemporaneo che è intervenuto col suo gusto o la sua interpretazione, allora il messaggio arriverà disturbato; tanto più disturbato quanto più si sarà allontanato da quello iniziale; l’impatto emotivo generato nel visitatore sarà assai meno incisivo generando meno stupore, meno curiosità, meno dialogo. Un cristallo unico messo alle finestre di un edificio storico al posto di un infisso originale per foggia e disegno, una serie di faretti utilizzati per illuminare (qualcuno può dire “per valorizzare”) gli affreschi barocchi sul soffitto di un antico palazzo aristocratico, troppa luce artificiale all’interno di una chiesa romanica… diventano tutti elementi storicamente distonici per un intervento che debba essere conservativo e vanificheranno dunque la prima, spontanea testimonianza del monumento che, prima dell’arrivo di chi narra, deve essere capace di iniziare a raccontarsi da solo.
Qualcuno che ben conosce i Beni del FAI potrà chiederci a questo punto (non sarebbe il primo!) che ne pensiamo della moquette anni ’60 con cui Guido Monzino ricoprì i pavimenti della Villa del Balbianello costruita nel Settecento dal Cardinal Durini, oppure delle recenti carte da parati a fiori così english looking e care al Marchese Roi, della ottocentesca casa a Valsolda che fu di Antonio Fogazzaro e poi appunto del suo pronipote Boso Roi che la lasciò al FAI; ho sempre risposto che, ci piacciano o non ci piacciano, poco importa; che siano o no in linea con l’epoca e il gusto che le mise al mondo prima di Guido Monzino e del marchese Roi… di nuovo: poco importa!
In entrambi i casi il nostro lavoro è quello di rispettare un contesto figlio del gusto di un’epoca e di quel milieu sociale della seconda metà del XX secolo dal quale provengono entrambi i donatori e che deve essere il punto di riferimento del nostro racconto. Qualche anno fa, sospinti da un impeto filologico rispettoso dell’edificio ma non del gusto di Guido Monzino, in un salotto di Villa del Balbianello è stata tolta la moquette beige così liberando l’elegante pavimento settecentesco in seminato alla veneziana sottostante; sembrò a quel punto che un divano rosso stesse meglio col pavimento riscoperto rispetto a quello originale verde; abbiamo appena deciso di riparare al nobile misfatto (in tutto e per tutto una forzatura che ha falsificato un contesto omogeneo); consci come siamo, oggi più di ieri, di essere i conservatori e i narratori di una storia personale e di una sensibilità altrui e anche del gusto di un’altra epoca, rimetteremo la moquette e il divano tornerà verde; che ci piaccia o no quel gusto era quello di Monzino, ricco industriale degli anni ’60 del Novecento; quello è il contesto che ci è stato consegnato; è il gusto di Monzino che deve parlare per raccontare un’epoca, non il nostro! Un altro esempio (ma potrei farne a decine) mi viene da una suggestione dell’amica Lia Rumma (che tra poco sarà sul palco con noi) che soffre nel vedere tre grandi lavori di Ettore Spalletti della fine degli anni ’80 collocati da Giuseppe Panza nella Villa di Varese in una stanza con un pavimento di marmi policromi realizzato dall’architetto Portaluppi negli anni ’30. Lia soffre per gli Spalletti che avrebbero bisogno di un pavimento neutro e omogeneo; ha ragione! Ma Villa Panza non è un museo di arte contemporanea ma la casa dove Giuseppe Panza di Biumo ha raccolto ed esposto la sua collezione guidato dal suo gusto e da ragioni che anche se ci sono ignote o poco comprensibili vanno rispettate. Quella era la sua camera da letto da ragazzo… Forse a quel pavimento era affezionato….
Ultima delicatissima questione: quella del grado di arbitrarietà concesso al conservatore/narratore nel ricostruire, con un atteggiamento a volte anche autoriale, un contesto nel caso in cui un luogo – come era Villa Della Porta Bozzolo – fosse completamente privo di arredi o solo parzialmente disadorno come Palazzo Moroni a Bergamo, in seguito a plurime divisioni ereditarie, o come Villa Necchi che, in seguito a una spiacevole ma alla fin fine fortunatissima causa ereditaria, fu privata di metà degli arredi e delle collezioni… Così incoraggiando Claudia Gian Ferrari a donare al FAI la sua strepitosa raccolta di dipinti e sculture. La vediamo qui mentre accarezza la sua amante morta di Arturo Martini, nell’anticamera di Villa Necchi.
È ovvio che una villa aristocratica di campagna, pur affrescata, nulla racconterebbe se sale e salotti, camere da letto, biblioteca o cucine fossero, come erano, totalmente prive di arredi; è ovvio che un’abitazione del rango di Villa Necchi con le vetrine dei salotti prive di collezioni preziose (che oggi ci sono grazie alla donazione Zegna) e le pareti senza dipinti di pregio sarebbe stata monca; è ovvio anche che un gran palazzo come Palazzo Moroni non poteva avere, nel percorso di visita, alcune sale modestamente allestite, mezze vuote a fronte di altre con i capolavori del Moroni appesi alle pareti. Le mutilazioni subite da queste case, più o meno significative ma egualmente avvilenti e sminuenti ai fini del racconto dei rispettivi contesti, sono state quindi colmate attingendo con giudizio da altre donazioni conservate nei depositi del FAI o grazie a nuove collezioni come, appunto, quelle Gian Ferrari e poi Zegna e molte altre onde ricostruire o solo completare una unità che, seppur apparentemente arbitraria (in toto come a Villa Bozzolo o solo in parte come a Villa Necchi e a Palazzo Moroni), si basa su una filologia temporale, culturale e di gusto che una ormai decennale esperienza ci ha consentito.
È un esercizio molto delicato e apparentemente rischioso ma che, anche grazie alla decennale consulenza di un grande esperto di interni come Filippo Perego di Cremnago, ci ha permesso di dare nuova vita e motivo di esistenza a luoghi che altrimenti non avrebbero avuto le caratteristiche per essere aperti al pubblico, per raccontare compiutamente le storie legate al loro ruolo nella storia.
Quel briciolo di estroso ma al contempo ragionato ardimento necessario, insomma, che aiuta gli audaci nella loro missione!
Ho a lungo tentato di spiegarvi stamattina il frutto dell’esperienza di tanti anni e tanti interventi portati a termine; la morale è che senza curiosità, senza passione, senza un po’ di estro, ma soprattutto senza studio, senza conoscenza e rispetto per la storia dei luoghi e di chi li volle e li abitò, senza umiltà, senza spirito di servizio verso i monumenti d’arte e di natura che ci sono stati affidati perché avessero un ruolo nella crescita culturale dei cittadini, senza la capacità di ascoltarli con pazienza, una seria opera di conservazione globale difficilmente potrebbe essere portata a termine; e senza di essa, base essenziale dalla quale partire, difficilmente tutto quello che Daniela Bruno vi illustrerà avrebbe potuto e potrebbe esser fatto. Per sempre e per tutti.
E sono solo i frutti dei primi 50 anni; mi auguro che queste basi possano essere solide abbastanza per reggere il peso dei prossimi 50.
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