19 febbraio 2022
Cosa può fare il FAI per il paesaggio italiano? Questo Convegno è già un'azione… Perché di paesaggio non si parla abbastanza. Si dà per scontato, e piuttosto lo si ammira. «Ma che bel paesaggio…» Paesaggio fa quasi sempre rima con bellezza, ma la parola bellezza, abusata, talvolta anche dal FAI, fa male al paesaggio: lo appiattisce come una cartolina. Eppure viene spontanea, perché è mossa da un sentimento, più che da una ragione: esprime con immediatezza armonia, continuità, equilibrio e quella misura d’uomo che ci rasserenano davanti a un panorama, e che sono indubbie caratteristiche del paesaggio italiano.
Il paesaggio non è sempre bello, è anche brutto, o imbruttito, e questo momento di trasformazione dell’Italia, di riforme e grandi opere, sarebbe un’occasione storica per migliorarlo, rigenerarlo, per ricucire le ferite, senza aprirne altre… Le riforme sul paesaggio, invece, restano sempre al palo, e dobbiamo curare, piuttosto che prevenire… Come la legge nazionale contro il consumo di suolo, invocata dal FAI, mai varata, che oggi ci tornerebbe molto utile per contenere l’impatto sul paesaggio dei progetti del PNRR: per raggiungere gli obiettivi al 2030 dovremo quasi triplicare il fotovoltaico, ma dove metteremo tutti questi pannelli? Al momento impazza la compravendita di suoli agricoli, molto preoccupante… Quel che è certo è che qualunque cosa faremo di qui al 2026 avrà un impatto, nel bene o nel male, e il paesaggio lo testimonierà alle generazioni future, inchiodandoci alle nostre responsabilità, così come testimonia oggi il nostro passato. È come un registro, un archivio, un deposito stratificato, in cui di tutto resta traccia… Basta saperlo leggere, saperlo osservare, e su questo possiamo fare qualcosa…
Cominceremo dai belvedere, da ribattezzare “ben vedere”: i Beni del FAI sono pieni di belvedere, ed è indubbiamente un belvedere, ma il paesaggio non è un tutto indistinto; a “ben” vedere, appunto, rivela le sue categorie costitutive, le regole organizzatrici, e la relazione tra le parti, in continua trasformazione, dai secoli alle stagioni. Nei Beni FAI offriamo visite guidate all’osservazione del paesaggio, e la Giornata del Panorama, a settembre, è intitolata ad esercitare lo sguardo… così come la Festa dei Circondari, a fine maggio, nasce per esplorare i paesaggi nei circondari dei Beni.
Questo è il belvedere del Castello di Masino. Ne ha parlato stamattina Marco Magnifico… Guardate l’anomalia di quella collina dalla cresta piatta e continua, che è la morena; e la pianura, che era il letto del ghiacciaio e che 10.000 anni fa è diventata il fondo di un lago, e poi il letto di un fiume, la Dora Baltea, con qualche laghetto, su cui è sorta nel 5000 a.C. una civiltà su palafitte, oggi sito patrimonio dell’UNESCO; si intravede l’autostrada, che non disturba, come avrebbe fatto Mediapolis; segue all’incirca la via romana verso le Alpi, e dove oggi c’è il casello autostradale di Albiano, nei campi si legge ancora la centuriazione romana, un vero e proprio piano regolatore del I secolo a.C., che ha trasformato il paesaggio in un reticolo di campi per i coloni romani; e poi i paesi in pianura, ciascuno con un castello e una pieve, e altri più su, lungo una nuova strada ai piedi della morena, perché quando l’impero romano è caduto, e nessuno ha più manutenuto il paesaggio, la pianura si è fatta invivibile.
A ben-vedere il paesaggio racconta la Storia. Fermarsi al bel-vedere, invece, talvolta è anche fuorviante: ci abituiamo a una visione riassuntiva e banalizzante del paesaggio, ad esempio “Toscana uguale cipresso su collina”, che ci spinge ad apprezzare, e addirittura a ricreare, paesaggi tutti uguali, conformi al cliché, e a considerarli intoccabili, congelandoli in un tempo artificiale, negando ogni evoluzione, che invece è vitale, perché il paesaggio non è un monumento morto, ma materia viva: ha la sua storia e le sue ragioni.
Vi raccontiamo le ragioni del paesaggio da cartolina della Toscana a Casa Campatelli, Bene FAI a San Gimignano, in un video racconto creato proprio per dare profondità alla cartolina. Quel mosaico di piccoli poderi risale al Quattrocento, prima non c’era.
Dopo la tragedia della peste i ricchi borghesi tornarono a investire nella terra, ma con un sistema nuovo, la mezzadria: divisero le loro terre in piccoli poderi, affidati al mezzadro in cambio di metà del raccolto. Il mezzadro doveva far fruttare al massimo il podere e lo trasformò in un sistema autosufficiente, con orto, frutteto, bosco, prato da pascolo e da grano, e si ingegnò, faticando, per coltivarlo tutto, anche sui pendii delle colline, perché ne andava della sua sussistenza…
Ecco da dove viene quel paesaggio a mosaico di sfumature di verde, e la cura del territorio nella tradizione della Toscana. Chi esce da Casa Campatelli dopo aver ascoltato questa storia, guarda al paesaggio in un modo diverso, lo guarda bene…
A ben-vedere un paesaggio, poi, emergono alcuni elementi ricorrenti: un tipo di coltivazione, di costruzione, di vegetazione… Si chiama abaco del paesaggio quel repertorio di elementi che ne connotano l’immagine e l’identità, che andrebbero insegnati a scuola come un alfabeto - o come un dialetto, visto che sono locali –, per saper leggere il territorio che abitiamo. E andrebbero ricordati ai cittadini e alle amministrazioni, perché governino un territorio senza perderne l’identità. Noi li abbiamo ben presenti… Manuteniamo e raccontiamo, ad esempio, un ampio ventaglio di muretti a secco nei Beni del FAI…ogni territorio ha la sua tecnica, la sua cultura…
Dall’Orto sul Colle dell’Infinito, Bene del FAI a Recanati, si gode il paesaggio che ha ispirato sentimenti e pensieri del giovane Leopardi nella celebre poesia L’Infinito.
Suggeriamo ai visitatori, dopo un percorso multimediale che la spiega verso dopo verso, di fare la stessa esperienza del poeta, perché dal belvedere nell’Orto il paesaggio è quasi lo stesso e ha la stessa potenza immaginifica descritta da Leopardi.
Questa visuale è un patrimonio, ma come si fa a proteggere una visuale, che sul terreno corrisponde a case, giardini, strade…? Questo è uno dei problemi della tutela del paesaggio: è un bene così diffuso, che al suo governo deve partecipare la totalità della popolazione, perché è quella popolazione che l’ha prodotto e lo usa, e con le sue scelte lo determina e lo trasforma. Il Comune di Recanati, con pieno supporto del FAI, ha da poco varato un piano particolareggiato del paesaggio nel cono di visuale dal Colle dell’Infinito che ribalta il meccanismo della tutela partendo dai privati: uno per uno sono stati chiamati a tutelare quella visuale, che si materializza nell’insieme delle loro proprietà. Avranno incentivi per migliorarle in nome di un progetto collettivo, verso una qualità che fa bene a tutti e saranno affiancati da esperti, che li guideranno a scegliere il nuovo colore della facciata o la siepe del giardino, educandoli così alla conoscenza e alla cura del paesaggio.
Il paesaggio è un’opera collettiva, che oggi ha bisogno di un progetto e di un’educazione diffusa, ma che in passato è stato una creazione spontanea. Conoscenza e coscienza del paesaggio oggi mancano: perché non si insegnano a scuola, ma anche perché si è perso un rapporto con il paesaggio, che invece è nella tradizione degli italiani. Il paesaggio rurale, prima dell’urbanizzazione degli anni Cinquanta, è stato sempre popolato, ed è stato il paesaggio produttivo per eccellenza: la campagna produceva beni e risorse, che la città consumava. Poi la civiltà contadina è tramontata, e quel paesaggio, con i suoi protagonisti, la sua cultura, il suo modo di produzione, si è consunto. È stata una cesura fortissima: l’abbandono ha reso il paesaggio rurale povero e debole, non presidiato, e quindi disponibile come un vuoto alle aggressioni delle infrastrutture e dell’industria, compresa quella agricola.
Dico questo perché per contribuire alla tutela e alla valorizzazione del paesaggio il FAI ha scelto da alcuni anni di occuparsi di paesaggio rurale, anche acquisendo nuovi Beni: lo raccontiamo, invitiamo a visitarlo e investiamo per curarlo, perché torni a produrre, che è la cura migliore.
Al Bosco di San Francesco ad Assisi offriamo una visita guidata dell’uliveto, per raccontare un paesaggio candidato a patrimonio UNESCO, la fascia olivata Spoleto-Assisi, ma anche per farvi toccare con mano come questo paesaggio sta cambiando, stavolta non per via dell’agricoltura intensiva, ma del cambiamento climatico. Si registra da alcuni anni un fenomeno preoccupante: la cascola delle olive. Nei periodi di siccità, sempre più forte e prolungata, l’albero assorbe l’acqua e l’olio dalle olive, facendole seccare e cadere prima della maturazione, con un impatto sul paesaggio, che cambia, prima del cambio delle stagioni, e che non produce più come prima…
Non sembri strano che un’istituzione culturale come il FAI investa in un pascolo abbandonato a 1600 m, a Monte Fontana Secca, sul Massiccio del Grappa, e non solo per restaurare gli edifici storici, ma soprattutto per recuperare il pascolo, che sarà caricato con 45 vacche burline, una razza autoctona condannata all’estinzione da Mussolini, perché poco produttiva, e oggi patrimonio di biodiversità. A curare quel paesaggio e a farlo produrre, non sarà il FAI, ma saranno le burline che, concimando e pascolando, naturalmente riporteranno equilibrio nella vegetazione e armonia nel paesaggio: la giusta proporzione tra bosco, pascolo magro e pingue, per migliorare la qualità del foraggio, e quindi del formaggio, che è prodotto, prima dell’erba, e poi della vacca. Un buon prodotto è sempre sinonimo di un buon paesaggio: ormai lo sappiamo, quel che compriamo e mangiamo influisce di molto sulla tutela dell’ambiente e del paesaggio.
È anche questo il nostro modo di proteggere il paesaggio, riportandolo a produrre, perché un paesaggio produttivo, secondo tradizione, ma con innovazione, è presidiato, frequentato, e alla lunga, forse, ripopolato. Da qui nasce il Progetto Alpe del FAI, per la valorizzazione delle aree interne montane dell’Italia, come i pascoli di Monte Fontana Secca, e come i borghi, luoghi del cuore segnalati al FAI da migliaia di italiani, immancabili mete nelle Giornate FAI di Primavera, e oggetto di cospicui finanziamenti del PNRR che, attraverso i borghi, mirano proprio al paesaggio. Quanto più, e insieme, pubblico e privato, rimetteremo al centro dell’attenzione, e della frequentazione, il paesaggio delle aree interne, tanto più le salveremo, anche da una transizione ecologica poco sensibile al valore del paesaggio.
Curare il paesaggio ed educare al paesaggio è nella nostra missione, ma c’è un terzo compito che, specialmente in questo momento storico, dobbiamo assolvere. La vigilanza: l’occhio vigile che teniamo sui territori, anche attraverso la rete dei nostri delegati e volontari, e il dovere di esprimerci, ove necessario, sulle loro trasformazioni. Questo Convegno nasce proprio per approfondire la trasformazione del territorio italiano che si prospetta di qui al 2026, e per promuovere in chi ci segue un atteggiamento di partecipazione e collaborazione basato sulla conoscenza, senza rigidità e preclusioni, con mente aperta al futuro ma cognizione del passato. È innanzitutto un’iniziativa di educazione del FAI per il FAI.
Il paesaggio si è sempre trasformato e sempre si trasformerà. Non ci sentirete battagliare contro le pale eoliche o il fotovoltaico in assoluto, perché tutte le fonti rinnovabili possono contribuire a quel mix che ci guiderà realisticamente all’obiettivo della transizione energetica.
D’altro canto la crescita dell’Italia impone nuove infrastrutture: strade, porti, impianti per il trattamento dei rifiuti. E dunque ben venga un paesaggio del futuro con infrastrutture per lo sviluppo: un paesaggio produttivo, di beni, risorse ed energia, come è sempre stato prima della concentrazione urbanistica e industriale. Le mega centrali lontane dalle città, nascoste dagli occhi e dal cuore, ci hanno abituato a non porci il problema dell’energia, né la necessità di creare un nuovo paesaggio produttivo, ma sostenibile. Ora ci tocca. Diffondere la produzione, riducendo la dimensione degli impianti e degli impatti, coinvolgendo le comunità nella produzione, perché ne abbiano benefici a cascata, restituirebbe al paesaggio la sua vocazione produttiva, e dove c’è produzione torna a esserci popolazione.
Ma ciò richiede un ordine preventivo, una visione condivisa, che si chiama pianificazione, che si fonda sulla conoscenza del territorio e sulla cultura del paesaggio. Decidere prima cosa e come trasformare: pianificare, conciliando le strategie nazionali e con le esigenze delle comunità locali, gli investimenti privati con la tutela pubblica, mettendo al centro il progetto prima della realizzazione. Da qui nascono i Piani Paesaggistici Regionali, lavoro congiunto di Stato e Regioni, ma che le Regioni, se li hanno, non sempre usano, se non addirittura ignorano o aggirano. Sempre più spesso leggiamo di conflitti tra Stato e Regioni sul governo del territorio, e probabilmente aumenteranno con l’aumentare degli interventi favoriti dal PNRR: il Governo ha impugnato la nuova legge urbanistica della Puglia, in contrasto con il Piano Paesaggistico; la Corte Costituzionale ha fatto lo stesso in Sardegna; c’è stata la bagarre sul Piano casa della Campania; e c’è il caso della Lombardia, che invece di completare il suo Piano, lavora a un altro strumento, non previsto né legittimo: un Progetto di Valorizzazione del Paesaggio. Su questi casi il FAI si è espresso, sempre ribadendo la necessità di prevenire i conflitti attraverso la pianificazione.
Il conflitto nasce dalla divisione delle competenze: allo Stato la tutela paesaggistica, e alle Regioni la pianificazione urbanistica. È un peccato originale, che si è trasferito nella Costituzione, ma che risale, pensate, alla legge Bottai del 1939 e alla parallela legge urbanistica del 1942, quando si pensava a un’Italia in cui il paesaggio si arrestava alle soglie della città, per cui servivano due leggi e due competenze distinte. Già allora fu una visione miope, ma oggi a maggior ragione le due normative devono andare di pari passo, e la sintesi delle competenze si troverebbe proprio nei Piani Paesaggistici, redatti dalle Regioni con il Ministero della Cultura: lì si risolverebbe il conflitto, bilanciando sviluppo e tutela, come si chiede questo Convegno. Se però i Piani si facessero… 5 su 20 Regioni, in 16 anni…
È che redigere un Piano Paesaggistico è uno sforzo enorme, ne sentiremo parlare, che richiede anni: proprio per questo va favorito con incentivi consistenti alle Regioni, che devono percepirne l’utilità per lo sviluppo e non solo l’ostacolo e le rigidità della tutela; e vanno favorite le Soprintendenze locali, che portano nei Piani la conoscenza fondamentale del territorio, ma non hanno personale dedicato e competente, né strumenti informativi efficaci, che oggi sono imprescindibili per semplificare l’esercizio della tutela e pianificare lo sviluppo: la transizione digitale, insomma, favorisce la transizione ecologica.
Lo dico perché di qui al 2026 avere i Piani Paesaggistici farebbe la differenza nel raggiungimento degli obiettivi del PNRR: decidere prima le aree idonee a nuovi impianti, e consentire solo quelle ai privati, e dare loro indicazioni preventive sul progetto, semplificherebbe di molto la valutazione autorizzativa, contribuirebbe alla crescita della qualità dei progetti dei privati e potrebbe innescare nelle comunità la sindrome PIMBY: please in my backyard…
In un momento storico come questo di grandi progetti, finanziamenti e riforme, perché non inaugurare una stagione pianificatoria e sistematoria del paesaggio, mai avviata in Italia, che darebbe benefici ben oltre il 2026?
Gestione del territorio e tutela del paesaggio, così come la battaglia per l’ambiente, richiedono impegni, progetti e visioni a lungo termine, che superano il tempo della nostra vita e quello delle legislature, ma questo sarebbe il momento giusto per cominciare. Dobbiamo pensare alle generazioni future: uno sguardo lungo, che è nella missione del FAI e che ci ispira ogni giorno, e che è anche nell’articolo 9 della Costituzione appena integrato: forse, a mio parere, l’aggiunta più innovativa e significativa, che lascia ben sperare.