19 febbraio 2022
Una ventina di anni fa Giulia Maria Crespi chiese di essere ricevuta da un grande e potente banchiere piemontese per implorarlo di non appoggiare, né come banca né personalmente, lo sciagurato progetto chiamato Mediapolis che avrebbe devastato il paesaggio dell’Anfiteatro Morenico della Serra di Ivrea. Il progetto prevedeva - proprio al centro dell’anfiteatro - la costruzione di un centro commerciale travestito da parco di divertimenti su una superficie di 500.000 mq: 50 ettari.
Per chi non lo sapesse l’Anfiteatro Morenico della Serra è il più esemplare edificio glaciale del mondo; non il più grande ma il più perfetto e il più leggibile: si formò circa tra il milione e mezzo e il milione di anni fa grazie alle ripetute discese dalle Alpi del ghiacciaio Balteo che scorrendo nella Valle d’Aosta si allargò più volte nella pianura tra l’altro formando, con i suoi sedimenti, l’impressionante morena (una delle più grandi e perfette del mondo) lunga 25 km e alta 600 metri che conosciamo appunto come Serra di Ivrea. Al centro di quel glorioso paesaggio praticamente oggi ancora intatto avrebbe dovuto sorgere Mediapolis.
Quando la signora Crespi ebbe finito di raccontare quale danno irrimediabile Mediapolis avrebbe arrecato a quel mirabile contesto il suo interlocutore disse: «Signora non capisco… in fin dei conti lì ci sono solo prati e campi di mais…».
Ci vollero vent’anni di opposizioni, ricorsi al TAR e al Consiglio di Stato per vincere la battaglia che salvò, anche grazie al FAI, l’Anfiteatro; ma quella risposta risuona ancora nelle nostre orecchie e in fondo è il punto di partenza del nostro incontro di oggi.
Quel banchiere - che era per altro persona colta e civile - non aveva evidentemente alcuna coscienza del valore culturale di quel paesaggio intatto e unico al mondo; come lui non l’avevano nemmeno le autorità che avevano già rilasciato i nulla osta di loro competenza; e come loro nemmeno quei molti amministratori e cittadini canavesani che, all’indomani del crollo della Olivetti, avevano giustamente bisogno di nuove imprese che offrissero occupazione e Mediapolis poteva essere una di queste. E infine, nonostante l’articolo 9 della Costituzione impegni la Repubblica a tutelare il Paesaggio nemmeno le Istituzioni preposte alla tutela avevano mai pensato - né prima né dopo la riforma del titolo V che assegna alle Regioni la tutela del Paesaggio - a proteggere quei 500 km quadrati unici al mondo.
Perché? E perché ne parliamo oggi? E che c’entra il 2026?
La risposta al “Perché?” è presto data anzi vi ho già risposto: perché non c’è mai stata una coscienza nazionale diffusa sul valore culturale del nostro Paesaggio che in fondo è stato spesso considerato uno spazio vuoto a disposizione…; e il dramma, a vent’anni dall’episodio che ho raccontato, è che tutt’ora è molto scarsa o non c’è del tutto, soprattutto in chi dovrebbe averla come condizione essenziale se ricopre un incarico pubblico di responsabilità: il recente comportamento della Regione Campania e lo sgraziato intervento del Governatore De Luca contro un’alta funzionaria del Ministero della Cultura proprio sul tema della tutela del Paesaggio dimostra l’estrema attualità e gravità del tema.
I Padri Costituenti - e su questo tema pensiamo naturalmente soprattutto a Piero Calamandrei e alla sua idea di una cultura profonda e composita come ingrediente fondamentale per il ruolo di un politico ma anche per quello di un cittadino civile - i Padri Costituenti, dicevo, in quel mirabile articolo 9 («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica. Tutela il Paesaggio e il Patrimonio storico e artistico della Nazione» e dopo accennerò al suo recente, virtuoso adeguamento) erano talmente consapevoli del peso culturale del Paesaggio italiano da averlo citato, nella stesura del testo, prima del Patrimonio storico e artistico; e ancor di più lascia strabiliati questa intuizione se si pensa che nel 1947 il Paesaggio italiano non era ancora un bene culturale a rischio; ci vollero comunque pochissimi anni perché il saccheggio iniziasse nonostante l’articolo 9…!
Altra sorte ebbe - seppur duramente messa a rischio - il Patrimonio storico e artistico favorito da quel minimo di orgoglio nazionale verso il nostro passato ma anche da quel poco di educazione dispensata dalla scuola, dai giornali più accorti e dai loro grandi giornalisti (Montanelli, Cederna tanto per far qualche nome bipartisan), dagli intellettuali più pugnaci e capaci di comunicare, dall’associazionismo di settore con Italia Nostra in testa e poi dal FAI e altri, da alcuni programmi televisivi particolarmente azzeccati e, negli ultimi 10/15 anni anche da un Ministero dei Beni Culturali che, benché acciaccato nei suoi organi e nelle sue finanze, ha comunque “tenuto botta” a eserciti di nemici contro il Patrimonio e al drammatico mutar dei tempi; tanto per fare una domanda, che ne sarà delle quasi 100.000 tra chiese e cappelle che il precipitare del numero dei fedeli renderà a poco a poco inutili come luoghi di culto?
Se bene o male, dunque, il valore del Patrimonio storico e artistico è oggi un concetto ben più radicato in un’opinione pubblica sempre più ampia rispetto a cinquant’anni fa non così, non assolutamente così il valore culturale dei Paesaggi Italiani.
Se i “nemici” del Patrimonio storico e artistico, coloro che non lo riconoscevano, deturpandolo o abbandonandolo hanno avuto spuntate molte delle loro armi, non così, non assolutamente così i “nemici” del Paesaggio. Gli ormai famosi piani paesaggistici, base indispensabile per una corretta e co-pianificata gestione del paesaggio, sono stati ridefiniti nel 2004 dal Codice Urbani e sono stati approvati solo in sei regioni su venti: Sardegna, Puglia, Toscana, Friuli, Piemonte e Lazio anche se quest’ultimo ha dei problemi. Quello lombardo si è incagliato…; altre regioni hanno un piano ma non co-pianificato col Ministero della Cultura, come la legge impone; e dunque è come se non ci fosse. Sei su venti in diciott’anni! È un segnale mostruosamente eloquente del disinteresse al tema.
E torniamo alla coscienza del valore culturale del Paesaggio; non è mancata sino ad ora solo una politica di educazione al Paesaggio; è mancata sino ad ora la consapevolezza della necessità di una politica di educazione al Paesaggio. Il romanico, il gotico, il Rinascimento e il Barocco vengono insegnati - anche se molto poco - nelle scuole; non sono rare oggi le tenzoni per cui il mio duomo barocco è più bello del tuo e la mia torre medioevale è più alta e possente della tua, ma molto meno evidente è la sensibilità comune nei confronti dell’importanza, della peculiarità e della rarità del paesaggio nel quale si vive; la nostra esperienza de I Luoghi del Cuore ci dice che su cento voti i due terzi riguardano monumenti e solo un terzo aree verdi; segno evidente che la consapevolezza del rischio di danni al paesaggio è molto ma molto minore di quella verso i monumenti.
Ma se non esiste una diffusa cultura del paesaggio come si fa a crearla? E che c’entra il 2026 nel nostro titolo?
È anche la drammatica cronaca di questi ultimi anni a darci una risposta; conosciamo tutti, lo viviamo sulla nostra pelle, ne leggiamo spesso terrorizzati e chiudiamo spesso occhi e orecchie di fronte alle immani tragedie provocate dal riscaldamento globale dovuto all’azione dell’uomo. Contrastarlo è una delle massime urgenze di fronte alle quali si sia mai trovato l’uomo nella sua storia; che l’Indonesia debba spostare la capitale perché affonda nell’oceano che sale non è l’ipotesi di un catastrofista ma la realtà; come lo sono altri mille segnali fuori dall’uscio di casa nostra… è di pochi giorni fa una tempesta di vento sulle Alpi con raffiche fino a 220 km/h! O la siccità invernale più prolungata degli ultimi cento anni; avete le foto del Po quasi in secca? L’umanità ne parla ormai seriamente e anche se la Cop26 di Glasgow non ha avuto i risultati che si speravano la coscienza ecologica nei paesi più sviluppati ha fatto passi da gigante ed è a questo proposito un segnale molto importante la recentissima evoluzione dell’articolo 9 con l’inserimento del periodo:
«La Repubblica… tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni».
In tutto questo la quinta sessione dell’Assemblea delle Nazioni Unite sull’Ambiente che si terrà a Nairobi fra dieci giorni e che ha identificato in: Cambiamenti climatici, Perdita di Natura, Inquinamento - le tre emergenze planetarie, rafforzerà l’attenzione sulle inter-relazioni tra le tre emergenze che interagendo tra loro si rafforzano esponenzialmente l’un l’altra. I cambiamenti climatici, oggi a noi più vicini come tema data l’imponenza degli effetti sulle nostre vite, non devono farci dimenticare la drammaticità dell’inquinamento globale dei suoli e delle acque che nonostante alcuni virtuosi provvedimenti (come per esempio l’impegno preso a Stoccolma nel 2004 per vietare o limitare drasticamente l’uso di sostanze chimiche tossiche) rimane una capitale emergenza. L’obiettivo delle Nazioni Unite, chiamato Transition to zero pollution è di arrivare al 2030 a inquinamento zero e per ciò che riguarda il suolo si è chiesta la ragionevole eliminazione entro quella data delle svariate centinaia di pesticidi più tossici (tra cui il famigerato glifosato, checché qualcuno - anzi qualcuna! - ne dica); ancor oggi sei milioni di tonnellate di pesticidi sono immesse ogni anno nella Natura con danni incalcolabili per la biodiversità e oggi ben superiori a quelli del riscaldamento globale!
Cambiamenti climatici e inquinamento combinati tra loro, dunque, aumentano esponenzialmente il terzo rischio, quello di Perdita della Natura che a Nairobi sarà proprio il tema centrale dei lavori il cui titolo è Rafforzamento delle azioni per la Natura per raggiungere gli obiettivi di uno sviluppo sostenibile. Per riassumere, è a tutti evidente quindi che i catastrofici danni sulla biodiversità e sulla Natura provocati dalla somma di riscaldamento climatico e inquinamento sono un tema fondamentale anche per il futuro del paesaggio; la lotta ad entrambi è dunque assolutamente prioritaria.
Ma… state attenti adesso perché è un po’ complicato…
Entro il 2026 dovranno essere spesi per infrastrutture sul territorio italiano circa 45 miliardi di euro; è una parte molto importante dei circa 200 miliardi totali del PNRR nel quale 59 miliardi saranno destinati al capitolo Rivoluzione verde e transizione ecologica e 25 a Infrastrutture per una mobilità sostenibile.
Dei 59 miliardi per la rivoluzione verde 23 sono per la transizione energetica e mobilità sostenibile (dunque energie rinnovabili come eolico, fotovoltaico, idrogeno e bus elettrici); poi 5 per l’agricoltura sostenibile, 15 per l’efficienza energetica (il bonus del 110% oggi ahimè tristemente sulle cronache) e 15 per la tutela del territorio e la riduzione, importantissima, delle perdite degli acquedotti. Un programma davvero imponente.
I 25 miliardi del capitolo Infrastrutture per una mobilità sostenibile saranno spesi per la rete ferroviaria dell’alta velocità e per un progetto di strade sicure.
Di tutto questo ben di Dio quindi, estraendo dai due capitoli i fondi per eolico e fotovoltaico e quelli per l’alta velocità e strade, si tratta appunto di ben 45 miliardi di euro di nuove infrastrutture che ricadranno sul paesaggio italiano con l’obbligo che i lavori siano terminati entro il 2026.
Se dunque da una parte il futuro del Paesaggio ha bisogno della salute della Natura e dunque di energie rinnovabili che riducano le emissioni nocive e il riscaldamento del clima, dall’altro i nuovi interventi per raggiungere questo scopo si traducono in larga parte in nuove infrastrutture per la produzione di quelle energie rinnovabili che proprio sullo stesso paesaggio ricadranno.
A tutto questo si aggiunge, criticità nella criticità, pochissimo tempo per spendere tantissimi soldi per una quantità di lavori impressionante; ripeto che tutto deve essere progettato, realizzato e speso entro il 2026!
In un quadro del genere e con questa fretta del diavolo è ovvio che la lungaggine del percorso autorizzativo per cosi tante nuove infrastrutture potrebbe diventare un gigantesco problema per il rispetto di tempi cosi mostruosamente stretti; e allora ecco che sempre più spesso si sente parlare di “semplificazioni” se non addirittura di deroghe che consentano di aggirare quelle norme per la tutela del Paesaggio inserite negli stessi piani paesaggistici quando ci sono; tutto questo potrebbe avere appunto ricadute micidiali sul solito povero Paesaggio.
Per valutare questa immensità di progetti il Ministero della Cultura ha nominato un'apposita Soprintendenza speciale; si tratta di un ufficio dirigenziale straordinario in carica fino al 2026 con l’obiettivo di assicurare la più efficace e tempestiva attuazione degli interventi del PNRR che per l’istruttoria che precede le autorizzazioni potrà avvalersi - mi domando come potrebbe non farlo ma non è obbligatorio - delle Soprintendenze sul territorio; la Soprintendenza speciale è formata da 35 esperti dei quali ben 20 architetti con esperienza nella pianificazione paesaggistica e territoriale e nelle procedure di valutazione ambientale; e poi avvocati e ingegneri.
Io credo che, per affrontare questa estrema emergenza (quando mai ci saranno più così tante risorse per affrontare temi tanto capitali per il futuro del Paese e del Pianeta?) sia stato fatto un buon lavoro. Noi, come tutti, vigileremo ma da buoni cittadini dobbiamo, fino a prova contraria, dare piena fiducia alle nostre istituzioni e soprattutto alla vigile azione del nostro Ministero. Con tanti auguri per un lavoro delicatissimo e forsennato!
Veniamo a un tentativo di conclusione.
Emergenza ho detto; sempre e comunque emergenza!
Emergenza per fronteggiare il riscaldamento globale, emergenza per evitare i potenziali danni al Paesaggio che potrebbero ridurlo; la prima sembra oggi comprensibilmente preminente; ma l’importanza culturale, ambientale, sociale e identitaria del nostro Paesaggio è uno dei valori supremi del nostro Paese.
Come evitare in futuro di vivere continuamente affrontando emergenze visto che questo non rende affatto facile le nostre vite e non assicura certo i migliori risultati? È indispensabile progettare oggi con le istituzioni dello Stato e realizzare tutti assieme un serio percorso formativo a tutti i livelli di istruzione sul paesaggio che, nel più roseo dei futuri immaginabili, ci eviti di sentirci ancora rispondere «Ma in fondo li ci sono soltanto prati e campi coltivati»; vent’anni fa il pericolo per l’Anfiteatro morenico della Serra di Ivrea erano i cinquanta ettari di Mediapolis; oggi, Dio non voglia, potrebbero benissimo essere, come è già accaduto per esempio nella Tuscia viterbese con centinaia di ettari, 50 ettari di, per lo meno utili, campi fotovoltaici o una bella serie di pale eoliche sulla linea retta del crinale della Serra; si badi bene che per fortuna questi due pericoli non sono oggi all’orizzonte ma di un imponente campo eolico sulla corona di colline attorno a Gubbio o attorno alla meravigliosa abbazia romanica sarda di Santa Maria di Saccargia si è parlato eccome…; non esistendo una pianificazione ogni proposta è ahinoi oggi possibile…; da quelle più sagge a quelle più orrende, quando non sarebbe affatto impossibile trovare soluzioni equilibrate e funzionali; il saccheggio dei campi agricoli, per esempio, non potrà che favorire, speriamo, campi eolici off-shore - cioè nel mare - se non vogliamo intonare un nuovo de profundis per l’agricoltura italiana: non quella estensiva che banalizza il paesaggio ma quella più parcellizzata che lo difende, lo gestisce, lo nutre e lo anima.
Emergenze come quella che stiamo affrontando, lotte come quelle che abbiamo sostenuto, insensibilità e ignoranza come quelle con cui siamo abituati a scontrarci, nemici le cui armi abbiamo imparato a conoscere ma non sempre a combattere, impreparazione delle autorità preposte alla tutela e alla pianificazione e contrasti tra di loro, saranno sempre un problema se fin dall’età scolare non inizierà un percorso collettivo di formazione culturale sul Paesaggio che consenta di conoscerne e quindi di riconoscerne gli elementi e il valore. Sarà sempre emergenza, sarà sempre contrapposizione tra competenze e necessità; sarà sempre perdente una seria azione di tutela in assenza di formazione.
Ricordate? «Si protegge ciò che si ama; si ama ciò che si conosce»; fu il claim del nostro Convegno a San Martino al Cimino nel lontano 1998; allora parlavamo del Bello in generale, oggi siamo ben più calati nel concreto. Non è più possibile affrontare seriamente i problemi della tutela del Paesaggio se di ciò che deve essere tutelato non si conosce l’importanza, ma solo il valore economico; se si continua a considerare il Paesaggio semplicemente lo spazio che ci circonda e nel quale viviamo e non, quasi, un’opera d’arte collettiva, forse meglio dire un capolavoro collettivo unico al mondo per la sua unicità e varietà, uscita dall’azione congiunta della Natura e di quella infaticabile, colta, ardua e appassionata delle generazioni che ci hanno preceduto; se non si riconoscono all’agricoltura, anche e soprattutto quella minore, il ruolo fondamentale e il supporto economico di cui ha bisogno altrimenti succederà sempre più spesso che diventi molto più conveniente coltivare un campo di pale eoliche che un campo di grano. Per apprezzarne il valore bisogna saper riconoscere gli elementi di un paesaggio, la proporzione tra le parti, l’armonia delle relazioni tra loro, la tipicità e o l’unicità; sennò sarà sempre e solo un magnifico sfondo al costruito dall’uomo e non il mirabile contesto formatosi nei secoli che fa dell’Italia quasi una summa visibile e vivente dei paesaggi del mondo; Paesaggio, si badi, come una realtà in perenne divenire e non certo vincolata a una forma consolidata da musealizzare nella sua bellezza ma da vivere e integrare da noi e dalle future generazioni con industriosa capacità ma sempre con la consapevolezza del suo valore storico e culturale.
L’articolo 2 dello Statuto del FAI stabilisce che lo scopo esclusivo della Fondazione è «l’educazione e l’istruzione della collettività alla difesa dell’ambiente e del patrimonio artistico e monumentale italiano» e dopo aver chiarito l’anno scorso col Presidente Carandini e senza compromessi che Ambiente per il FAI è quella inscindibile unità tra Storia e Natura che ha creato il Paesaggio italiano, ci è chiara l’azione che, oltre a pretenderla dallo Stato, attende da oggi anche il FAI. Spiegare, raccontare, insegnare che cosa è il Paesaggio italiano dove campi, borghi, boschi, coltivi, api e farfalle, monti, acque, rocche e castelli, foreste, scoiattoli neri o bruni, zone umide, ville e regge grandiose, città murate con i loro rondoni, cascine, risaie, e aironi, vigne e oliveti, ghiacciai, dolomie e graniti sardi e valdostani, pascoli e malghe, torri e tonnare, monasteri monumentali e umili pievi convivono da secoli e per secoli dobbiamo far convivere nella maggiore possibile armonia anche con le città che crescono, gli impianti industriali e commerciali, le strade, le ferrovie, i porti, i nuovi impianti per le energie rinnovabili e tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno nella evoluzione della sua vita sul pianeta.
Giovani, adulti, maestri, scolari, genitori, professori, studenti, amministratori, politici, imprenditori italiani… quando tutti avranno un giorno ben chiaro, perché lo avranno studiato in quanto qualcuno lo avrà loro insegnato, che il Paesaggio italiano è il grande tesoro del nostro Paese che tutto contiene… quel giorno saremo più sereni.
Ma quel giorno è lontano, le emergenze all’ordine del giorno, l’inconsapevolezza del valore diffusa ad ogni livello, i Piani paesaggistici regionali sei su venti, gli amministratori incolti tantissimi, gli interessi e i capitali a disposizione enormi. Non c’è tempo da perdere ma per carità non scoraggiamoci! È la nostra vita; sono la nostra passione e l’amore per il Paese più bello del mondo che ci guideranno nel fare la nostra parte in questo grande e entusiasmante progetto.
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