03 aprile 2024
Nel 2018, al 9° censimento de “I Luoghi del Cuore”, il Trabocco Turchino, uno dei più belli della costa di San Vito, si è classificato al 14° posto nazionale (1° in Abruzzo), grazie ai voti di 20.077 persone.
Abbiamo ripercorso insieme all’architetto Maria Cristina Forlani la storia dei trabocchi della costa abruzzese, il loro progressivo abbandono fino alla riscoperta di una peculiare eredità architettonico-culturale.
Si tratta di un momento importante per la Storia dell’Architettura. Negli anni Sessanta del XX secolo sono stati richiamati all’attenzione degli studiosi prodotti fino allora trascurati della cultura, architettonica, antropologica, geografica; si tratta della “Cultura Materiale”, che da sempre ha affiancato i grandi e noti monumenti, con un proprio valore mai finora sufficientemente riconosciuto: un valore “corale” che definisce l’insieme ambientale dei monumenti ma anche un valore intrinseco che oggi deve farci riflettere in ordine alla questione della “sostenibilità”. Non a caso gli anni Sessanta erano quelli in cui il “Club di Roma” sollecitava alle riflessioni sui “limiti della crescita”.
L’antico trabocco può, a ragione, essere considerato una costruzione sostenibile.
Ma il termine “sostenibilità” appare oggi troppo abusato e spesso vuoto dei reali significati. Sarebbe importante dunque richiamare alcuni parametri che la connotano (a livello ambientale, economico e sociale) e ritrovarli nei trabocchi; ad esempio possiamo rilevare che, per i trabocchi vengono utilizzati materiali naturali, locali, spesso recuperati (si pensi agli elementi dismessi della ferrovia, ecc.) che necessitano di trasformazioni scarsamente energivore e impattanti (sostenibilità ambientale); per la loro costruzione si usa manodopera del posto che muove da bassa specializzazione per caratterizzarsi nell’esperienza (sostenibilità sociale ed economica).
I trabocchi, dunque, rappresentano un’interessante manifestazione del “genius loci”, punto di riferimento per una buona pratica da considerare – in prospettiva – per le costruzioni sul mare.
I trabocchi fanno parte, come detto, di quelle "Architetture senza architetti" la cui storia inizia con la risposta ai bisogni primari dell’uomo, dell’abitare e del lavoro. Sono “palafitte”, retaggio primitivo di un presidio difensivo, trasformate in “macchine per la pesca”; una pesca da terra, su misura per uomini poco avvezzi ad usare imbarcazioni per raggiungere il mare aperto e pescoso o, più spesso, in condizioni economiche tali da non consentirne il possesso; ne emerge per le popolazioni di quei territori, aspri e poco generosi, una caratteristica economia di sussistenza bisognosa dell’integrazione tra pesca e agricoltura.
Il nome è una definizione italianizzata, con accezioni variabili – a seconda delle aree geografiche in cui la macchina è insediata (Travocche, Trabucche, Traboucche, Trabbauche) –, proveniente da forme dialettali nonché, molto probabilmente, dal latino «Trabs» (legno, albero, casa).
Pare che i primi costruttori dei trabocchi appaiano nella seconda metà del secolo XVII quando nella zona si stabilirono alcuni nuclei familiari, composti soprattutto da ebrei migrati dal nord Europa; abilissimi artigiani (pontieri, fabbri, tessitori) i quali, se da un lato erano privi di una solida tradizione marinara (non sapevano – forse – nuotare né allestire imbarcazioni), dall'altro avevano trovato nella pesca una buona fonte di sostentamento.
Da qui nacquero queste strane palafitte piantate sugli scogli e collegate da un’esile passerella in legno e corde alla terraferma.
Negli anni Settanta del Novecento, dopo il boom economico degli anni Sessanta, erano già in gran parte abbandonati; come in altri casi l’economia di sopravvivenza era stata soppiantata da nuove formule più remunerative fornite – anche per le attività di mare – dall’industrializzazione.
Ma la riscoperta di una peculiare eredità architettonico-culturale ha indotto – sulla scorta degli studi inerenti le “architetture spontanee” – anche la Regione Abruzzo (L.R. n°93, 1994 e segg.) ad accorgersi del patrimonio costituito dai “trabocchi” che, con lo spostamento della ferrovia, divengono oggetto di ulteriore considerazione. A livello immateriale si configurano come “icona” e “slogan” di attrattività turistica: “la costa dei trabocchi”; a livello materiale inizia una lenta e continua trasformazione che li porta a divenire nuovi “ristoranti” sul mare!
La riscoperta, quindi, se da una parte ha significato la valorizzazione (anche turistica), sia del manufatto che della costa, dall’altra mostra emergente – se non adeguatamente tutelata e governata – una trasformazione selvaggia con un conseguente degrado dell’immagine paesaggistica.
A oggi rimane uno dei pochi ancora integro nella sua essenza: un’immagine consolidata di un manufatto leggero, discreto e “trasparente”, smontabile e ricostruibile.
D’Annunzio lo “analizza” e lo incastona nel “paesaggio letterario” che vorremmo preservare (per un turismo attento, sensibile, … sostenibile), tratteggiandone la descrizione più emozionante e appropriata che sia mai stata data tra le tante prodotte, soprattutto negli ultimi anni con l'obiettivo di veicolare un messaggio turistico.
Ma con il Turchino si vuole sottolineare anche l’aspetto di sfida che discende dal “praticare” il trabocco e il contesto naturale della falesia.
Si tratta di una trattazione che travalica la letteratura proiettandone l’immagine in un’attualissima esperienza multisensoriale.
Il trabocco, e in particolare il Turchino, non può essere solo raccontato... o illustrato. Va vissuto, con tutti i sensi.
Va percorsa la passerella apprendendo il paesaggio tra terra e acqua, la scabrosità e la levigatezza dei materiali.
Va atteso un tempo, rimanendo sulla piattaforma, per percepire il vago movimento del sistema e riconoscere la nuova situazione di gravità, modificata.
Vanno distinti e rimpastati i suoni dei materiali, dei giunti, dell’aria, dell’acqua. Gli elementi naturali e artificiali.
Va “sentito” l’ambiente tra terra e mare come una fusione di suoni e odori, sapori, luci ed ombre, frescura e calore.
Per concludere, va acquisita una inconsapevole realtà aumentata del particolare sistema artificio-natura.
Maria Cristina Forlani, architetto, è stata ordinario di Progettazione Tecnologica dell’Architettura e si è occupata, dagli anni Ottanta, di questioni ambientali per l’architettura, di tecnologie appropriate e di sostenibilità degli interventi in aree sensibili.