Complesso di vecchie cave di tufo dismesse dalla metà degli anni cinquanta del XX sec. interessato da attività estrattiva manuale di conci destinati alla costruzione edilizia del territorio circostante: denominato genericamente Tagghjate (da "tàgghju", voce dialettale corrispondente all'italiano "taglio", a significare la caratteristica modalità estrattiva operata con la specifica tipologia di piccone "zzuèccu"), ma, anche Zzùccate, quale luogo di una maggiore consistenza signica sul territorio, oggi costituisce una peculiare testimonianza storico-sociale di archeologia protoindustriale con anche una forte valenza paesaggistico-ambientale per le suggestive residuate presenze di lavorazione e le riappropriazioni naturalistiche venutesi a determinare col tempo. Le Tagghjate, site in territorio di San Giorgio Jonico (Taranto) a valle del versante Ovest del Monte Belvedere , fiancheggiano, per circa 2 chilometri, la strada provinciale Sangiorgio-Pulsano dandosi ad una prima fruizione in un dolce andamento a gradoni che asseconda la silente estensione orizzontale del sovrastante rilievo mentre i tufacei ocra dorati si alternano ritmicamente con i variegati verdi stagionali, il tutto in un continuo gioco plastico di luci ed ombre nel differito orientamento delle masse litiche. Originariamente estendentesi anche con una "lontana" appendice (toponimo: l'India) verso il territorio della vicina Roccaforzata, oggi le Tagghjàte, per una serie di sciagurati interventi sul territorio, possono, in linea d'aria, solamente vantare un residuato significativo di 900 metri, ultima possibilità di riscatto di memoria identitaria delle comunità locali.
L'accesso all'interno del complesso è garantito da alcuni laterali varchi di lavoro praticati nel vivo della roccia ovvero dalle ora uniche due estremità obbligate di percorrenza del/i veccho/i tratturo/i che caratterizza/no l'asse longitudinalmente del più autentico nucleo interno del tutto.
E' qui, che si dipana tutta la magia della forte suggestione sensoriale: un continuo susseguirsi di quinte e controquinte delle residuate superbe pareti di scavo dal sempre cangiante scorcio in precario bilico tra terra e cielo rigate dall'ordinato parallelismo geometrico dei filari di scavo della dura presenza, un accentuatissimo e inaspettato movimento plastico delle superfici con forti luci ed ombre accompagnato dai sigilli di un "esserci stato": date, nomi, frasi (ora irraggiungibili perche in quota); il lucente candore tufaceo, qui e là, si lascia accarezzare dagli sprazzi di dilavaggio di una variegata tavolozza naturale ora a tono ora in rapporto di complementarità (caldo-freddo/ocra giallo-rossa/verde). La lussureggiante vegetazione spontanea di macchiua mediteranea e la relativa convivialita faunistica lentamente ma inarrestabilmente imperano in ognidove nel riappropriarsi spaziale della ritrovata quiete. I profumi, le improvvise brezze ma anche le stagionali calure immersi in un irreale silenzio accompagnano il percorso dei vecchi trattuti di lavoro che ora si aprono in improvvisi spiazzi, ora si dimenano in strette gole, o rivelano l'accesso a insospettabili cavità (grotte) laddove la dura presenza del lavoro si fa, di necessità, più insistente con anche ausili di accorgimenti tecnico-architettonici specifici (scalinate, curvature di pareti, ecc.). Così, la mente corre in spazi di riflessione dilatando la presenza dell'esserci e al contempo interrogandosi sul significato di un possibile ritrovato connubio d'identità altrimenti smarrita.
Questa è la ricchezza che si offre nelle Nostre e che necessita di un urgente intervento di tutela salvaguardia e valorizzazione prima che null'altro si possa contro la scure dell'oblio, dell'ignoranza, dell'indifferenza e dell'incuria, tutte negazioni, queste, del passaggio di testimone dall'oggi al domani generazionale di una coscienza reclamante il sè.