L’abbazia di San Benedetto è il primo e più antico luogo di culto cattolico dell’intera Valle del Lujo.
Sita nell’omonima frazione del comune di Albino in provincia di Bergamo, fiore all’occhiello della verdeggiante Valle del Lujo, a sinistra del fiume Serio in Val Seriana, l’abbazia di San Benedetto affonda le sue radici medievali nel XII secolo.
Già nel 973 d.C., l’agreste territorio, caratterizzato dalla presenza di abeti, faggi, larici, querce e castagni, fu dato in gestione dall’imperatore Ottone II al vescovo di Bergamo insieme al distretto della Val Seriana.
Nel 1135 il vescovo Gregorio (uomo di virtù e sapienza e di formazione benedettina) volle erigere un monastero e, insieme ai monaci incaricati, optò proprio per la Vallis Alta (la Valle del Lujo era identificata geograficamente così) perché sembrava adatta alle esigenze di preghiera e lavoro.
Il 24 febbraio 1135 papa Innocenzo II concesse la costruzione del monastero. L’atto di costituzione del cenobio data aprile 1136.
Inizialmente la struttura di piccole dimensioni ospitò alcuni benedettini tradizionali e il monastero prese il nome di San Benedetto in Vallalta.
Ansuino fu il primo rettore provvisorio fino all’elezione dell’abate Oprando: l’ordinazione del padre superiore avveniva con il placet del vescovo perché il monastero era di costituzione diocesana (uno dei pochi all’epoca). Questo implicava l’indipendenza di sostentamento, seppur con alcuni doveri nei confronti dell’episcopo (ad esempio ogni anno, la sera del Sabato Santo, vigeva l’obbligo di consegnare quasi 4 kg di cera, pena la scomunica).
Il monastero ebbe come possedimenti, oltre ai territori in loco, un pascolo nelle zone di Carona (alle pendici del monte Armentarga), le cappelle di san Salvatore a Bergamo e Santa Maria in campagna (oggi Santa Maria del sasso a Cortenuova), le chiese di San Giorgio in Teze e di San Damiano in Nazano (nella zona di Brescia), terreni a Telgate, Martinengo e Zandobbio, beni a Chiari e Orzivecchi, oltre che la potestà sulla chiesa di San Lorenzo a Trento.
I frati, che si sostentavano con le coltivazioni di frumento, miglio, panico e segale, avevano un mulino e un laghetto per l’allevamento del pesce.
Con l’arrivo dei comuni la curia revocò i poteri signorili al monastero, ma lasciò i diritti di esazione (cioè la riscossione di somme in denaro chieste agli affittuari).
Nella seconda parte del XIV secolo iniziò un lento declino causato anche dalla cattiva gestione patrimoniale: calarono i monaci in numero e le zone di Casale e Gavazuolo rivendicarono l’indipendenza, ma i problemi maggiori furono di tipo economico, infatti, molti affittuari non pagavano più e i frati furono costretti a chiedere prestiti ai laici in cambio della cessione di territori.
L’abate Giovanni da Castello fu sospeso da Innocenzo VI per aver sperperato il patrimonio.
Il suo successore si legò ai conti Suardi di Trescore, tanto che alcuni membri della nobile famiglia vennero sepolti nella cappella laterale dell’abbazia (nel ‘900 le tombe furono spostate a Trescore, nell’oratorio di villa Suardi).
Antonio de Clivate, ultimo abate, morì nel 1437.
Nel 1470 il controllo dei territori passò direttamente alla Sede Apostolica.
Nel 1789 la Repubblica di Venezia inglobò il territorio sotto il suo controllo e lo mise all’asta, l’abbazia fu assegnata al conte Fogaccia e solo nel 1808 fu riacquisita dalla popolazione di Abbazia.
Negli interni sono da segnalare opere di pregio della bottega dei manni, dipinti di Giuseppe Carnelli ed una tela attribuibile ad Antonio Cifrondi
Sul retro della chiesa si possono ammirare le absidi, tipiche dell’architettura romanica lombarda dell’epoca, modificate con la costruzione della cappella delle congregazioni in sostituzione dell’abside di nord-est (guardando le absidi a destra).