Tra Oriente e Occidente: Michele Damaskinos a Villa Della Porta Bozzolo

Tra Oriente e Occidente: Michele Damaskinos a Villa Della Porta Bozzolo

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Tra Oriente e Occidente: Michele Damaskinos a Villa Della Porta Bozzolo
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28 marzo 2025

Il restauro di un dipinto del XVI secolo custodito a Villa Della Porta Bozzolo ha offerto l’occasione per un’indagine attributiva. La scena della predica di Cristo è, infatti, di Michele Damaskinos, appartenente alla scuola pittorica “veneto-cretese”. Ne abbiamo parlato con Enrico Maria Dal Pozzolo, professore di Storia dell’Arte Moderna all’Università di Verona.

Chi era Michele Damaskinos e che ruolo ha avuto nel panorama della pittura italiana e veneta del XVI secolo?

Michele Damaskinos era uno dei tre pittori più importanti nell’isola di Creta attivi nella seconda metà del XVI secolo. Gli altri due erano Giorgio Klontzas e Domenikos Theotokopoulos, che in seguito sarebbe diventato celebre con il soprannome di El Greco.

I tre erano in contatto tra di loro ed è probabile che proprio Klontzas fosse stato il primo maestro del Theotokopoulos. Pur lavorando a più di 2.000 km di distanza, tutti e tre ebbero rapporti stretti con la cultura figurativa italiana, e in particolare veneta, perché Creta era sotto il dominio della Serenissima. Per questo a un certo punto essi sentirono l’esigenza di spostarsi a Venezia. Se per Klontzas non abbiamo informazioni certe, per gli altri due sì: soprattutto per Damaskinos, che è documentato in laguna dal 1569 al 1582, attivo per la comunità greco-ortodossa della chiesa di San Giorgio dei greci, dietro a San Marco. In tale chiesa Damaskinos lavorò molto, prima di tornare a Iraklion, dove lo si ritrova nel 1583 e dove morì una decina di anni dopo, forse di peste. Sappiamo però anche che non si limitò a lavorare per Venezia: fu al servizio di un nobile siciliano per tre anni, o per lo meno un documento ci informa che questi erano i patti tra i due.

Questa operatività diffusa fece sì che dipingesse sia utilizzando il linguaggio della tradizione tardo-bizantina sia quello occidentale.

Di lui restano infatti opere realizzate sia in puro stile bizantino (come la Madonna Odighitria del Museo dell’Istituto Ellenico di Venezia e varie icone nella connessa chiesa di San Giorgio dei Greci) sia in stile rigorosamente italico, come la Madonna del Rosario nella chiesa di San Benedetto a Conversano, in Puglia. Gli è stata anche riferita, a mio parere plausibilmente, una copia da Jacopo Tintoretto: una tavola con le Nozze di Cana al Museo Correr che riprende, con minime variazioni, l’originale del Robusti alla Salute.

Al pari del Theotokopoulos, egli tentò più volte una sorta di mediazione linguistica tra queste due culture visive, con l’adozione di modelli veneziani calati sui tipici fondi d’oro della tradizione bizantina (ne sono esempio la Pietà e la Nascita della Vergine della Pinacoteca di Bologna), oppure differenziando tra le figure principali (per le quali, in un’ottica ortodossa, bisognava mantenere i modelli prestabiliti dalla tradizione) e altre di complemento, in cui si sentì più libero di interpretare sfoderando la sua consuetudine con la maniera veneziana.

Lo si vede bene nell’Adorazione dei Magi nel Museo di Santa Caterina del Sinai a Iraklion (Creta), dove però in quasi ogni porzione della tavola si percepisce una radicale conflittualità linguistica.

In cosa consiste il “linguaggio della tradizione tardo-bizantina” (si può dire fosse quella greca?) e in cosa quello “occidentale”?

La domanda è enorme e richiederebbe un’analisi assai complessa. In estrema sintesi si può dire che la differenza principale tra queste due tradizioni è che quella tardo-bizantina e post-bizantina fu il risultato di una sorta di congelamento della cultura pittorica cristiana propria dell’Impero Romano d’Oriente, che dopo la parentesi iconoclasta (tra VIII e IX secolo) assunse anche iconografie proprie a seguito dello scisma della chiesa d’Oriente, sancito definitivamente nel 1054. Tale congelamento riguardava sia le tipologie delle figure sia i modi in cui esse venivano realizzate. Tutto ciò dipese dalla volontà di non adulterare quelle che si credeva fossero fedeli testimonianze visive dell’apparenza della divinità, se non addirittura acheropite, ossia “non fatte da mano umana”, ma divina (come il Volto di Cristo nel Sancta Sanctorum a Roma). Tra l’altro in antico si credeva che l’evangelista Luca fosse stato un pittore e che avesse ritratto Maria: per questo divenne il patrono degli artisti.

Nella tradizione occidentale invece – a partire da Giotto, che, come si disse, trasformò la pittura da “greca” in “latina” – i modelli precedenti furono oggetto di una lenta ma continua trasformazione, dando luogo a un processo evolutivo che nel primo decennio del ’900, con Picasso, portò alla rottura con la narratività figurativa e alla nascita dell’astrattismo. Fino a quel momento, in tutta la tradizione occidentale si riconoscono cicli in cui di volta in volta ci si allontana o ci si riavvicina alla cultura classica greco-romana, che era per lo più conosciuta tramite la declinazione romana. Quello fu il modello, per dir così, ancestrale, che in parte aveva pure un significato politico, visto che trasmetteva l’idea della grandezza dell’Impero Romano d’Occidente.

Insomma, nella cultura occidentale prevale la tendenza alla creatività e alla trasformazione, in quella orientale una logica conservativa: al punto che ancor oggi nei territori in cui è diffusa la dottrina ortodossa (in primo luogo Grecia e Russia), si continua a dipingere immagini fedeli agli antichi prototipi bizantini.

Qual era il rapporto tra Creta e Venezia al tempo?

Al tempo di Damaskinos Creta era una colonia veneziana, un’area strategica fondamentale per garantire approdi e transiti sicuri alle navi della Serenissima che la collegavano all’Oriente. Con la caduta di Costantinopoli nel 1453, molti intellettuali, letterati e artisti si erano rifugiati a Creta, determinando un fervore di studi che nella seconda metà del XV secolo trasformarono l’isola in un centro di mantenimento e di rielaborazione della cultura greca. Anche il celebre cardinale Bessarione (il cui lascito di volumi stette alla base della costituzione della Biblioteca Marciana di Venezia) nel 1462 si adoperò per favorire la nascita di una nuova scuola locale. Nel ‘500 a Candia vigeva un sistema educativo aggiornato ed efficiente, animato da un milieu in stretto contatto con gli ambienti intellettuali veneti che garantiva, a chi poteva, un elevato livello formativo. Vi erano scuole eterogenee - cittadine, monastiche e private – e i circoli accademici cominciavano a diffondersi: come l’Accademia dei Vivi, fondata a Rethymno nel 1561 dal matematico Francesco Barozzi, un patrizio in stretto contatto con figure centrali della cultura veneta dell’epoca come Daniele Barbaro (il committente di Palladio e Veronese nella villa di Maser). Non stupisce, pertanto, che si sia trattato di un momento di particolare ricchezza letteraria e culturale in senso lato, che riguardò anche la musica. Una figura di spicco in quest’ultimo campo fu quella di Frangiskos Leontaritis, per tappe formative e raffinatezza espressiva in qualche misura paragonabile al Theotokopoulos. Partito giovane dall’isola, studiò polifonia con celeberrimi musicisti dell’epoca (Willaert, Orlando di Lasso, Giovanni Pierluigi da Palestrina), poi si recò a Roma e in Baviera, per tornare infine a Creta nel 1568, dove importò formule compositive completamente diverse da quelle tradizionali dell’isola.

Gli scambi commerciali tra Venezia e Creta erano intensi e dall’isola partivano verso nord enormi quantitativi di vino, olio, sale, formaggi e spezie. Parallelamente, la frequenza degli approdi di imbarcazioni provenienti dalla laguna veneta garantiva un regolare afflusso di libri e prodotti di lusso che rispondeva alle esigenze della più evoluta società locale.

Abbiamo qualche testimonianza d’archivio che le chiese delle tre città principali (Iraklion, Rethymno e Chania) fossero decorate anche con pale di maestri veneziani, i cui lavori approdarono pure nei palazzi dei veneti abbienti residenti a Creta.

Il problema è che con la conquista turca di metà ‘600 quasi tutte queste opere d’arte – assieme alle reliquie dei santi – furono portate a Venezia e che gli archivi locali furono distrutti: quindi le informazioni in nostro possesso su cosa davvero ci fosse sono minime.

Insomma: per l’élite dei suoi abitanti era naturale sentire l’isola a un tempo come culla di una propria civiltà remota, quella dell’Ellade classica, ma anche nutrita - attraverso un lungo cordone ombelicale marittimo – dalle novità prodotte nell’intera Europa cristiana diffuse dall’emporio lagunare.

Certo, non dobbiamo immaginare che gli aggiornamenti fossero immediati e che le persone e le cose approdassero con facilità. Un viaggio via mare tra Creta e Venezia non poteva durare meno di quattro settimane ed esistono svariati resoconti (spesso orripilanti) che ci informano sulle modalità di tali trasferimenti nel ‘500. D’altra parte, furono molti gli intellettuali e gli artisti dell’isola che decisero di imbarcarsi in direzione nord per completare la propria formazione culturale. Per intendersi, non si poteva diventare medici o giuristi senza addottorarsi in un’Università europea e la meta preferita era Padova. Si pensi che prima della caduta di Candia del 1669, almeno la metà degli studenti greci all’ateneo patavino erano cretesi.

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Quale poteva essere stato il rapporto tra El Greco e Damaskinos e in quali dettagli questa vicinanza emerge nella tavola?

Esiste una precisa fase del percorso giovanile di El Greco in cui egli appare molto vicino ai cosidetti “Madonneri”, cioè a una schiera di pittori, per lo più anonimi, attivi nel XVI secolo in un’area molto vasta, che si estende dall’Egeo, ai Balcani a entrambe le coste dell’Adriatico. La loro produzione fu immensa, con prodotti di largo smercio e qualità solitamente scadente. Ai tempi del giovane El Greco furono in particolare due i maestri di maggior rilievo di questa scuola che saldava moduli “tardo-bizantini” a composizioni “occidentali”: appunto Giorgio Klontzas e Michele Damaskinos. L’El Greco che si dimostra particolarmente vicino a Damaskinos e Clontzas è quello – ad esempio – dell’Ultima Cena nella Pinacoteca Nazionale di Bologna, delle Adorazioni dei Magi nel Museo Lazaro Galdiano di Madrid e nel Museo Willumsen in Danimarca, dell’Altarolo della Pinacoteca Estense di Modena e di altre 5/6 tavole sparse in collezioni pubbliche e private.

In particolare, nella tavola di Casalzuigno si può rilevare la somiglianza del vecchio seduto a destra che si regge il mento con il braccio puntato sul gomito con quello al centro della "Guarigione del cieco" del giovane El Greco a Dresda e di varie teste rispetto all’"Ultima cena" di Bologna.

Una parte della critica specializzata ha eluso il problema del rapporto di El Greco con i “Madonneri”: specie quella di matrice anglosassone. Tuttavia – come scriveva Roberto Longhi nel 1963, recensendo la monografia dell’antesignano massimo di tale filone critico “negazionista”, ossia Harold Wethey (che però alla fine della sua vita si ricredette) – è un problema oggettivo, che non può essere negato. Personalmente sono convinto che sia prima di arrivare in Italia, sia appena giunto a Venezia nel 1567, Domenikos bazzicò, e forse lavorò, in qualcuna di queste officine. Dirò di più. Sono quasi certo che esista un’opera da lui condotta assieme a Klontzas: ossia due delle quattro tavolette già Sacrati Strozzi nella Pinacoteca Nazionale di Ferrara, e precisamente quelle con la Lavanda dei piedi e la Crocifissione. Le altre due spettano, a mio avviso, al collega. Ma non mi stupirei se a un certo punto riemergesse un dipinto o un documento attestante una sua qualche relazione pure con Damaskinos. Di sicuro qualche volta – in buona o cattiva fede – sono state attribuite a El Greco opere in effetti di quest’ultimo.

Cosa dimostra il fatto che Damaskinos possedesse disegni di Parmigianino?

Se davvero Damaskinos possedeva dei disegni di Parmigianino, anzitutto si può dire che aveva buon gusto! Parmigianino è stato uno dei grandi disegnatori non solo del suo tempo, ma di ogni epoca.

Aveva una scioltezza di tratto sbalorditiva e la capacità di rendere con pochissimi segni una realtà viva, pulsante. Certi suoi fogli hanno qualcosa di miracoloso. Sia quelli a gesso rosso sia quelli a penna denunciano la piena assimilazione della tecnica di Raffaello, che si potrebbe definire sovrumana. Considerando che Parmigianino era morto ormai da decenni e che all’epoca il collezionismo di disegni era già molto diffuso (stimolato anche da Giorgio Vasari, che nelle Vite spesso faceva riferimento alla sua propria raccolta di fogli, che considerava essenziali per capire gli stili dei maestri) si può dare per certo che avesse avuto in mano anche notevoli valori economici. Il fatto è che non possiamo essere assolutamente certi che fossero davvero dei disegni. Non stupirebbe infatti che si fosse trattato invece di stampe, cosa abbastanza comprensibile per un pittore come lui. Al pari di molti suoi colleghi greci che praticavano il polilinguismo – primo fra tutti El Greco – costoro, che spesso operavano in luoghi lontani dai maggiori centri di produzione, avevano la necessità di conoscere le composizioni dei più noti maestri continentali e simili stampe potevano approdare, a costi molto contenuti, anche a migliaia di km di distanza. Però temo che non sapremo mai se davvero, in questo specifico caso, si fosse trattato di disegni o di stampe: a meno che non si trovi qualche disegno di Parmigianino su cui sia scritto un qualche riferimento a Michele Damaskinos.

Riguardo il soggetto rappresentato, potrebbe spiegare quale sia l’episodio della Disputa di Gesù con i dottori e per quali motivi non parrebbe essere il titolo corretto?

La scena rappresentata pone non banali problemi di interpretativi. Vediamo Cristo che predica in un tempio o in una sinagoga ebraica, innanzi a molti personaggi, tra cui alcuni – quelli in primo piano – che tengono grandi volumi sottobraccio: che si tratti di dottori è evidente. Tali elementi fanno immediatamente pensare a un episodio narrato nei Vangeli da Luca (2, 41-52). Quando aveva 12 anni, Gesù era stato condotto a Gerusalemme da Maria e Giuseppe per la Pasqua ebraica. Tornando, i genitori non si accorsero che il ragazzo non era più con loro. Allora si misero a cercarlo e lo trovarono ancora nel tempio che interloquiva con i dottori. Questi ultimi erano rimasti allibiti di fronte alla dottrina che il fanciullo esibiva, perché – come scrive l’evangelista – “tutti quelli che lo udivano restavano meravigliati della sua intelligenza e delle sue risposte”.

Ciò che non torna, rispetto a tale narrazione, è che nella tavola il Cristo è descritto come un adulto, con una lunga barba, non certo come un dodicenne.

Tra i personaggi identificabili vi è sicuramente Maria al centro, con il manto blu e il nimbo circolare, e probabilmente San Pietro, seduto di fronte a lui con le braccia incrociate sul petto in un gesto di devozione. Pure riconoscibile è la figura di Mosè nella statua entro la nicchia della parete frontale, con le tavole della Legge e le corna. Ma tutti gli altri chi sono? Soprattutto i due seduti in primo piano a sinistra, con la donna che indossa un elegante abito con le maniche «stratagliate» secondo una moda riscontrabile verso il 1570? Che sia la Maddalena, con magari sua sorella Marta accanto (la donna con il manto marrone che si porta la mano al petto)? È un’ipotesi che può essere avanzata, ma – devo essere sincero – non ne sono molto convinto.

D’altra parte, non mi pare che neppure nei cosiddetti Vangeli apocrifi si ritrovi un racconto che possa far combaciare tutti questi elementi. Quindi si apre la discussione. E magari a qualche lettore verrà in mente la soluzione giusta...

Alcune fasi del restauro dello Studio Beccaria

Michele Damaskinos
Michele Damaskinos

Perché è stato importante l’intervento di restauro eseguito dallo Studio di Carlotta Beccaria?

Ogni restauro è un momento di conoscenza oggettiva del manufatto, perché – per così dire – “si mettono le mani in pasta”.

Si asportano le vernici ossidate e gli strati di sporco, si riporta la pellicola alla condizione originaria, al netto dei danni occorsi nel tempo. Quindi si tratta di un passaggio assolutamente fondamentale, in cui si verifica l’entità delle eventuali ridipinture (che si riscontrano spessissimo, quasi sempre) o anche si deve prendere atto che quello che si riteneva autentico è in realtà un falso (cosa che non avviene spesso, ma più spesso di quanto non si possa credere...). Quando questi interventi vengono operati da eccellenze del settore, come nel caso di Carlotta Beccaria, si è in mani sicure e le operazioni di consolidamento e ripristino consentono di ritrovare l’opera nelle migliori condizioni possibili. Che nel caso di questa tavola sono davvero ottime ci fanno apprezzare il dipinto come se fosse uscito da pochissimo dalla bottega del pittore. O quasi.

Enrico Maria Dal Pozzolo (Padova, 1963) insegna all’Università di Verona dal 1999. È specializzato in pittura di età rinascimentale e barocca. Ha al suo attivo centinaia di pubblicazioni scientifiche, con monografie su Giorgione, Lorenzo Lotto ed El Greco. Ha curato mostre in Italia (tra cui Venezia, Palazzo Ducale, Museo Correr; Roma, Palazzo Venezia, Museo di Castel Sant'Angelo) e all’estero (Madrid, Museo del Prado; Londra, National Gallery). Oltre a quella accademica e scientifica, svolge un’attività di divulgazione con la realizzazione di prodotti cinematografici, radiotelevisivi, multimediali e teatrali, con collaborazioni con “la Repubblica”, Rai e BBC1. Attualmente è consulente della Camera dei Deputati per iniziative legate alla valorizzazione del patrimonio storico-artistico istituzionale.

Visita Villa Della Porta Bozzolo

Una "villa di delizia" a due passi dal Lago Maggiore

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