21 giugno 2022
Dall’anno Mille alla fine del Novecento una sola famiglia, i Valperga, ha abitato il Castello di Masino accumulando arredi, dipinti, oggetti e memorie, senza mai cancellare drasticamente il passato. Secoli di piccole e grandi storie si ripercorrono tutti in una visita, dalla cappella con le spoglie di Arduino d’Ivrea, primo re d’Italia dal 1002, ai sotterranei dove l’ultimo proprietario, Cesare Valperga, nascondeva ebrei e partigiani. Le testimonianze delle stagioni passate si susseguono, si intrecciano e convivono, accordate dalla volontà conservatrice di una famiglia da sempre conscia e fiera di una storia secolare incancellabile.
Una sola «cancellatura» si ricorda nella tradizione familiare - ora rimossa dai recenti restauri del FAI - e riguarda il Salone dei Savoia, i cui affreschi con stemmi araldici e ora rivelati «furono coperti di calce durante la Rivoluzione Francese» per nascondere la dichiarata celebrazione dei Savoia su cui si era fondata la fortuna dei Valperga. Era la fine dell’Antico regime, la cesura storica più profonda per l’aristocrazia europea, che evidentemente echeggiò nei saloni di questa piccola sede di corte del Piemonte sabaudo. Il mondo era cambiato, ma alla fine del Seicento, quando il Salone fu affrescato, pur cominciando a formarsi gli stati nazionali, l’Europa era ancora una storia di famiglie, che nelle regge e nei castelli esibivano attraverso la decorazione le ragioni del potere e del prestigio ambiti o raggiunti. I Valperga non furono da meno.
È il conte di Masino Carlo Francesco Giuseppe (1655-1715) a intraprendere un grandioso progetto di rinnovamento dell’antico feudo di famiglia, esteso al borgo e ai giardini, ma concentrato su architettura e decorazione di una serie di sale di rappresentanza che segnano un percorso cerimoniale, come in una reggia. «Masino non è Venaria» - scrive agli architetti, ma Carlo Francesco è cresciuto a corte: quella francese di Luigi XIV, dove si forma nelle arti militari, nella cultura e nel gusto, e quella sabauda, di Carlo Emanuele II e della moglie, poi reggente, Maria Giovanna, di cui tutti sanno che è il favorito, e che lo nomina nel 1680 primo scudiere del futuro re Vittorio Amedeo II.
Il ruolo impone una residenza adeguata a ospitare la corte, che infatti più volte soggiornerà a Masino, ma anche gli ambasciatori stranieri, che visitano il ducato per stabilire legami diplomatici che si consolidano in legami matrimoniali, come quello dello stesso Carlo Francesco nel 1692 con Maria Vittoria Trotti Bentivoglio, dama dell’aristocrazia milanese. Intorno a quella data si registrano negli archivi di famiglia spese - utensili, colori e maestranze - per una estesa campagna di rinnovamento decorativo, che si ritrova infatti in diverse sale, a cominciare dal Salone degli Stemmi al piano terra, in origine Sala Valperga: qui Carlo Francesco esibisce attraverso una teoria di stemmi dipinti la storia della sua famiglia, che si intreccia alla nobiltà piemontese, lombarda e francese e che rivendica perfino un titolo regio nella discendenza da Arduino. Salendo al piano nobile, tre sale in infilata ripropongono su pareti e volta lo stesso schema, ma celebrano questa volta dinastie e casate di Francia, Austria e Spagna: letti e poltrone, rivestite di preziosi tessuti coordinati alle tappezzerie, dovevano accogliere diplomatici stranieri, talvolta ricevuti qui «informalmente» anche dalla stessa Maria Giovanna.
Il fulcro inaspettato di questo percorso cerimoniale, dominato negli affreschi da una particolare mania per l’araldica, che ad oggi non trova confronti nelle residenze nobiliari del resto del Piemonte e d’Italia, è il Salone dei Savoia. Fino al 2019 si presentava come una quadreria piuttosto imponente di primo Ottocento con 97 dipinti tra grandi e piccoli ritratti di personaggi di casa Savoia e delle corti europee. I Savoia già dominavano la volta, affrescata con un regale baldacchino aperto sullo scudo «partito» - metà sabaudo e metà francese -, simbolo dell’unione tra le due dinastie sancita dal matrimonio, nel 1684, tra Vittorio Amedeo II e Anna d’Orléans, nipote di Luigi XIV. A questo trionfale decoro, tuttavia, non facevano per nulla pendent le pareti, dipinte tristemente di bianco. Sbiadito qua e là, l’intonaco lasciava intuire una decorazione sottostante, ma sorprendente è stato il risultato della sua completa rimozione.
Tre anni di restauri oggi svelano il Salone com’era all’epoca di Carlo Francesco, che qui in particolare volle esibire il prestigio della sua casa e della sua casata, ottenuto grazie alle relazioni strettissime con i Savoia.
Il Salone è una dichiarazione di fedeltà ai Savoia, di cui è affrescata l’intera storia attraverso la genealogia.
Sulla volta è il presente, con il matrimonio di Vittorio Amedeo II, ma sul camino, secondo punto focale, è il passato, che risale attraverso gli antenati fino al Medioevo, al mitico Beroldo di Sassonia, in un albero genealogico dipinto alto 3 metri. La traduzione di questa genealogia in immagini corre, invece, in un fregio e all’imposta della volta dove 147 stemmi «partiti» ricordano le alleanze matrimoniali di principi e principesse sabaudi con membri delle dinastie di tutta Europa, dal Portogallo a Cipro.
Ciò che più impressiona, però, si svolge sotto questo araldico ornato, in cui anche i Valperga si ritagliano un posticino (una Valperga sposò un Savoia Racconigi). Le pareti del Salone, infatti, sono una scenografia dipinta a trompe l’oeil che, aldilà di un portico a colonne, spalanca lo sguardo sul ducato dei Savoia, qui celebrato nella sua dimensione non storica, ma geografica, attraverso vedute e piante di 22 città al di qua e al di là delle Alpi: il Piemonte da Torino a Ivrea, e la Savoia da Chambery a Nizza. Non sono originali, ma copie, tratte da un celebre volume a stampa del 1682, che era nella biblioteca del Castello: il Theatrum Sabaudiae, un atlante voluto da Carlo Emanuele II e Maria Giovanna per promuovere l’immagine del ducato presso le corti europee come un territorio ricco, ben amministrato e ben difeso, peraltro dallo stesso Carlo Francesco, allora comandante delle milizie sabaude.
Del resto, seppur impressionanti per integrità e vivacità, non è nella qualità artistica il valore di questi affreschi rivelati, come non è nel solo restauro l’impresa del FAI, bensì nel mostrare che la valorizzazione di un monumento si fonda sull’inesausta conoscenza e su un metodo di analisi e di racconto che approfondisce ogni piega della storia e scava con sempre nuove indagini, come nella terra così negli archivi e sulle pareti dipinte, alla ricerca di tracce che il più delle volte si conservano.