10 luglio 2024
A 1.900 metri d’altitudine, circondate dalle imponenti cime delle Orobie Valtellinesi, sorgono l’Alpe Pedroria e Madrera, due antichi alpeggi rimasti abbandonati per anni, oggi recuperati dal FAI e gestiti insieme all’aiuto di una famiglia di allevatori: i Sassella.
Alex Sassella, la moglie Sonia Poggi e i loro figli stanno riportando i due alpeggi alla loro antica vitalità, rendendoli un laboratorio a cielo aperto per riattivare l'economia agricola alpina.
Attraverso il ripristino e la valorizzazione delle aree a pascolo, la manutenzione dei sentieri e la ristrutturazione delle baite e dei tradizionali calecc, il FAI e la famiglia Sassella sono al lavoro per mantenere elevata la qualità ecologica degli habitat, per preservare il mosaico paesaggistico dell'arco alpino, ma anche aiutando a riattivare la filiera di un prodotto di elevata qualità: il formaggio Bitto.
La nostra storia come azienda agricola è lunga ed è stata a volte tortuosa, ma ci abbiamo sempre creduto e crediamo tutt’ora che porterà i suoi frutti. Siamo partiti prima del 2000 con l’affittare una stalla a Talamona, in provincia di Sondrio, dove tenevamo le vacche durante la stagione invernale. Abbiamo poi deciso di costruire una stalla nostra con lo spazio vendita e a quel punto ci siamo chiesti: perché non diventare un agriturismo? Decisione presa, nel 2008 abbiamo realizzato le camere e siamo arrivati a essere in 12, diventando una vera e propria azienda agricola multifunzionale, la cui forza stava proprio nella garanzia di qualità dei prodotti. Seguivamo la stalla e le 37 vacche da latte, producevamo formaggi e insaccati – avevamo anche i maiali – eravamo presenti nei mercati e vendevamo direttamente anche il latte crudo. A proposito di latte crudo, siamo stati una delle prime aziende in Italia a promuovere e utilizzare i distributori automatici. Nel 2009 eravamo 12 venditori di latte crudo in tutta Italia e nel giro di un anno siamo diventati 1.500. L’agricoltore che produceva e vendeva il latte direttamente ai consumatori iniziava ad avere un potere contrattuale maggiore nei confronti delle grandi aziende. Questo non è piaciuto e da qui è caduta una bufera mediatica sui rischi dati dal consumo di questo prodotto. Nel giro di qualche anno dopo la chiusura dei distributori, si sono aggiunti un grave incidente in famiglia e il covid, avvenimenti che, metaforicamente, ci hanno tagliato le gambe. Nel frattempo, però, abbiamo incontrato il FAI e la collaborazione nata nel 2018 ci ha sempre dato un nuovo slancio:
ci è piaciuta moltissimo l’idea di lavorare insieme per recuperare e riqualificare l’Alpe Pedroria, proprio perché la valorizzazione del territorio alpino, dei saperi e dei prodotti legati alla nostra tradizione è da sempre una nostra prerogativa.
Partirei con il dirti che nel 2023 noi, come azienda agricola, insieme al FAI abbiamo vinto il premio Francesco Arrigoni per il nostro lavoro di ripristino dell’Alpe Pedroria.
Il comitato ci ha premiati per la forte valenza etica e sociale che contraddistingue il nostro lavoro in ambito agricolo e agroalimentare. In quattro anni e mezzo abbiamo infatti ampliato il pascolo di più di dieci ettari e mezzo, iniziando a riattivare anche la filiera produttiva del formaggio.
Fin da subito abbiamo cercato di capire quali fossero le priorità per ripristinare l’alpeggio: motosega alla mano, trancia alla mano e tanta fatica, insieme al FAI abbiamo continuato il lavoro di delimitazione del perimetro “storico” dell'alpeggio perché, dopo trent’anni di abbandono, il pascolo era quasi completamente coperto dalla vegetazione.
Abbiamo cercato di fare anche dei raffronti storici con le vecchie fotografie, e anche grazie ai rilievi e alle indagini fatti fare dal FAI abbiamo individuato dove un tempo arrivava il pascolo e fino a che altitudine. Una volta delineato il perimetro abbiamo iniziato a mandare dentro le mucche: ovviamente le Angus che mangiano tutto, dalla foglia, al rovo, alla felce, mentre le brune alpine sono un po’ più “schizzinose”, mangiano solo erba di qualità. Ma appunto l’incuria e l’abbandono avevano portato il pascolo a riempirsi di rovi e di pini e, dopo il grande lavoro di pulizia e ripristino che abbiamo fatto, l‘erba di qualità sta iniziando a ricrescere adesso.
Essere allevatore qui, sulle montagne, significa prendersi cura del territorio, saperlo gestire e manutenere, non senza fatica perché quasi tutte le operazioni vengono fatte manualmente, sotto il sole e sotto la pioggia, ma il valore di quel che resta sul territorio non ha prezzo.
Oggi fare l'agricoltore è diventato veramente difficile. Dato lo scarso potere contrattuale delle piccole imprese agricole di montagna, il sostentamento dell’azienda deriva in buona parte dai contributi erogati dall’Unione europea tramite la PAC, la politica agricola comune. Questi contributi sono oggi la base per condurre un’attività agricola, senza quelli, purtroppo, manca l’aria. In questo ho però sempre riscontrato delle criticità. Il contributo andrebbe vincolato alla qualità del lavoro, al merito per la cura e gestione del territorio e per la produzione enogastronomica, quindi andrebbe posto un controllo da parte degli organi preposti, che oggi è proprio quello che manca. Purtroppo, ci sono situazioni in cui l’allevatore è portato a prendere i soldi, ma di fatto non si occupa della manutenzione dell’alpeggio, non porta al pascolo le vacche o non gestisce i sentieri. Questo va a discapito del territorio perché, quando mi guardo attorno, vedo che il territorio sta piangendo. Inoltre, i terreni sono sempre meno: le amministrazioni anziché incentivare la ristrutturazione delle case, incentiva la costruzione di nuovi edifici e quindi il consumo di suolo, così che si va a perdere il grande valore ecologico di questi luoghi. Un tempo non era così, oggi si è persa la cultura del rispetto nei confronti della natura. Si è persa la relazione tra l’uomo e la terra. Oggi è diventato un discorso solo prettamente di soldi e non di passione per il lavoro che fai.
Per me fare l’allevatore è stata una scelta di vita: non la cambierei mai, perché questo è quello che mi fa sentire libero.
Posso dire che il film ci ha dato una carica incredibile e, a conti fatti, anche un piccolo aiuto economico. Ti racconto com’è andata: un giorno dovevo incontrare una guida alpina e un gruppo di escursionisti in alpeggio, ma, non riuscendo a salire, ho mandato su Cristiano, nostro figlio.
La guida vede Cristiano e dopo poco mi scrive che una casa cinematografica sta cercando un personaggio per un film: un ragazzino biondo, con gli occhi azzurri, amante della montagna e con uno spirito un po’ selvaggio…
Lì per lì eravamo un po’ perplessi, ma era la descrizione calzante di nostro figlio. Ne abbiamo parlato tutti insieme, abbiamo chiesto a Cristiano se fosse interessato e alla fine abbiamo preparato un video con il telefonino e lo abbiamo mandato alla casa cinematografica. Cristiano è passato. Poi abbiamo fatto un altro provino e un altro ancora, tutti passati e alla fine siamo andati a Torino dove c’erano altri 2.500 ragazzi. Cristiano ha vinto per la sua spontaneità e genuinità. Da li è cominciata un’avventura bellissima: è nata una profonda amicizia con Alessandro Borghi e Luca Marinelli, che mi hanno assunto come loro actor coach personale. Da imprenditore agricolo in difficoltà mi sono trovato a essere assistente alla regia. E, dopo il film, siamo andati a Cannes.
Eravamo sul red carpet insieme a tutti i più grandi attori di oggi: è stata un’emozione incredibile, non ci sono altre parole per descriverlo!
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