04 novembre 2024
Molti l’hanno descritta come un vertice incagliato, bloccato e incapace di fornire i risultati di cui abbiamo bisogno per affrontare l'urgenza della crisi ecologica. Un giorno prima della conclusione, la maggior parte dei delegati aveva più domande che risposte: fino all’ultimo hanno continuato a proporre opzioni e aggiungere parentesi ai testi negoziali. Il livello di sfiducia è stato alto, per cui ogni parola era diventata un campo di battaglia narrativo e politico.
Di fatto i Paesi non sono riusciti a raggiungere un consenso su questioni chiave come i finanziamenti per la protezione della natura, una riforma per ridurre i sussidi dannosi per l'ambiente o su come monitorare gli obiettivi per poter raggiungere, ad esempio, il ripristino del 30% delle aree terrestri e marine entro il 2030. Ovvero molti degli obiettivi del Quadro globale per la biodiversità Kunming-Montreal, il Global Biodiversity Framework, approvato alla passata COP sulla Biodiversità, la COP15.
Ma tra le cattive notizie, alcune buone sono arrivate.
Il mondo della società civile e numerose delegazioni dei Paesi in via di sviluppo chiedevano da tempo un riconoscimento monetario per gli utilizzi che le grandi aziende farmaceutiche e dell’industria agricola fanno della natura, o meglio del suo patrimonio genetico.
In passato, gli scienziati che volevano creare nuovi farmaci o altri prodotti a partire da piante, licheni, funghi e altri organismi erano costretti a recarsi fisicamente nel loro habitat per raccogliere campioni, molto spesso habitat situati in quei Paesi che chiamiamo in via di sviluppo, dove la biodiversità è ancora elevata. Oggi i dati genetici di questi organismi sono stati digitalizzati e sono contenuti in numerosi database, che possono essere utilizzati gratuitamente dalle grandi aziende. Questo da oggi potrebbe cambiare. Sebbene l'accordo sia volontario e i governi nazionali dovranno introdurre nuove norme, da ora le grandi aziende dei settori farmaceutico, cosmetico, nutraceutico e altri potranno versare l'1% dei loro utili o lo 0,1% dei loro ricavi a un fondo – chiamato Cali Fund – per aiutare i Paesi più biodiversi e più fragili e le loro comunità indigene a proteggere la natura.
E sono stati proprio i popoli indigeni e le comunità locali a conquistare maggiore riconoscimento a questa COP: dopo 20 anni è stato creato un gruppo da loro composto che farà parte dei prossimi negoziati sulla biodiversità. Un modo, per queste popolazioni, per entrare attivamente nei processi decisionali, per essere un ponte che consente alle loro conoscenze e soluzioni radicate a livello locale di arrivare fino ai decisori politici per proteggere la natura.
Ma a COP16 le note amare non sono appunto mancate e hanno riguardato la solita questione spinosa: i soldi.
Le parti non hanno infatti trovato un accordo per mobilitare le risorse finanziare a favore della natura.
Le discussioni continueranno nei prossimi anni per approvare una nuova "Strategia per la mobilitazione delle risorse" per aiutare a garantire quei 200 miliardi di dollari all'anno entro il 2030, decisi durante la scorsa Conferenza, la COP15. Per raggiungere questa somma entro la fine del decennio serviranno molti più strumenti che i soli fondi pubblici. Numerose iniziative sono state presentate durante queste due settimane di COP16, attirando l’attenzione delle tantissime imprese presenti. Di fondamentale importanza nei prossimi anni sarà, ad esempio, il reporting della biodiversità per il settore privato, chiave per avere un impatto reale sulla transizione delle aziende.
Ma tornando a quelli che sono i compiti a casa, ovvero i piani e le strategie che ogni Paese avrebbe dovuto presentare per raggiungere gli obiettivi dettati dal Global Biodiversity Framework – tra gli altri, ad esempio, proteggere almeno il 30% delle terre e degli oceani o eliminare i sussidi dannosi per l’ambiente – solo 44 Paesi su 196 hanno presentato i piani (molti dei quali ancora non attuati).
Oggi, però, non possiamo più rimandare l’azione in difesa della Natura, ma serve rafforzare la risposta collettiva per affrontare la duplice crisi planetaria di clima e biodiversità. Le soluzioni a queste sfide sono intrinsecamente politiche e richiedono un allineamento globale e collettivo nel processo decisionale. Perché oggi proteggere la natura non è solo un imperativo etico, che garantisce il benessere di tutti i cittadini del mondo, ma contribuisce anche a ridurre il rischio di eventi estremi che potrebbero insorgere come conseguenza dei cambiamenti climatici.
Come ha sottolineato il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, «la biodiversità è alleata dell'umanità e fare pace con la natura rappresenta una delle sfide fondamentali del XXI secolo».
Ora è cruciale che tutti riconosciamo la gravità della crisi e procediamo uniti verso soluzioni condivise.
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