San Pellegrino in Alpe è un nido d’aquila affacciato sull’abisso delle Apuane a 1525 metri, su una delle più belle viste del mondo.
Si tratta di un luogo venerando, poetico e leggendario, dove i confini fra storia e immaginazione sono sottili come il filo del crinale.
In passato lassù c’erano otto mesi di neve all’anno.
Un rifugio per i viaggiatori che transitassero sull’asse maestro della via Bibulca – uno degli infiniti rami della Francigena che dalla pianura padana portava a Roma passando da Lucca – si rendeva indispensabile.
La prima prova documentaria della sua esistenza risale al 1110, ma si può ragionevolmente collocarne l’origine a partire dal 1071, quando Beatrice di Lorena, la madre di Matilde di Canossa, fonda qualche miglio più in basso l’importante abbazia di Frassinoro.
San Pellegrino, che presidia il passo delle Radici, costituiva una chiave di volta di tutto il sistema di difesa, accoglienza e comunicazione che i da Canossa avevano steso a maglie fitte sui loro territori.
L’ospitale offriva vitto e fuoco per tre giorni e disponeva di otto letti con sacconi e coperte.
Era gestito da una piccola comunità operosa e mista, di frati laici oblati, uomini e donne, e conversi, secondo la regola di S. Agostino e conducevano vita comunitaria.
Portavano sull’abito il segno bianco di San Pellegrino, che rappresenta il bordone a forma di T e la scarsella, raffigurato ancor oggi all’interno della chiesa.
Fino al ‘300 questo resta un luogo di passaggio di importanza capitale, sia sul piano religioso che su quello mercantile, poi il sistema viario si ribalta e la strada per Roma non passa più dalle Radici ma dai valichi del bolognese, perché Firenze, grazie ai suoi fiorini, cattura la strada e la fortuna di Lucca declina.
Tutti gli altri ospitali di valico decadono allora velocemente, ma questo no.
Per merito di una invenzione geniale dei suoi frati e dei suoi conversi, da posto di transito diviene autonomo centro di attrazione e pellegrinaggio, grazie alla leggenda mirabolante di San Pellegrino – figlio di un mitico re di Scozia, approdato quassù dopo una lunga vita di avventure indicibili, di tribolazioni e di prodigi - composta per giustificare e nobilitare la presenza qui di un luogo di culto.
A sancire questa rinascita, anche la chiesa viene ricostruita nel 1462 dalla famiglia Nobili di Lucca, che ne assumerà il giuspatronato.
Per impulso di Alfonso d’Este nasce sul piazzale nel 1570 la prima osteria - dove si trova ora l’albergo Appennino - e nel 1729 quella dei Lunardi, che ancora esiste.
E così il santuario di San Pellegrino diviene notissimo e frequentato ancor oggi.
Qui arriveranno visitatori illustri, Michelangelo di passaggio per il marmo delle cave, la granduchessa di Toscana Bianca Cappello, Cristina di Svezia, Ludovico Ariosto che si lamenta delle strade e dei banditi, il poeta Shelley nell’ Ottocento, Pascoli che sale da Barga.
Che la chiesa non abbia mai formalmente riconosciuto questo culto - si tratta evidentemente della consacrazione di una figura, quella familiare del pellegrino, cara e nota alla devozione popolare - nulla toglie ai santi eremiti sconosciuti chiamati Pellegrino e Bianco, che dormono nel loro tempietto edificato da Matteo Civitali, un architetto e scultore celebre che nel ‘400 tiene bottega a Lucca e a Pisa.
La chiesa è ancora quella del Quattrocento, e costituisce un tutt’uno con l’ospizio. L’insieme si presenta come un baluardo rustico e robusto di pietra che raccoglie e difende i viandanti, le porte affrontate sotto il portico, il voltone che accoglie e protegge i pellegrini dalla bufera, sotto il quale passa ancor oggi l’antica via Bibulca, i ciottoli consumati dai piedi dei viaggiatori.
L’edificio abbraccia alla lettera il crinale e lo sormonta, tanto che il confine attraversa la chiesa, i santi hanno la testa in Emilia e i piedi in Toscana.
Perché questo è un crinale che unisce, e ai tempi di Matilde si trattava di una unica provincia appenninica.