Situato nella zona meridionale della antica cittadella, il Palazzo Vescovile si innalza, nella sua bella ma anonima misteriosità, accanto alla Cattedrale di San Michele Arcangelo, con cui sembra fondersi in un modo che da sempre incanta i bitettesi e i turisti.
La sua facciata settentrionale guarda, con fierezza, la bellissima Piazza del Popolo, contenitore del patrimonio culturale di Bitetto, e ovviamente, la parte occidentale e orientale dell'antica e buia Via Vescovado.
Oggi, nell'edificio l'architettura alto-medioevale è completamente scomparsa, poiché lo stile architettonico attuale, modificato diverse volte, soprattutto durante il grande risalto della Diocesi bitettese, è una versione tardo-settecentesca, però conserva preziosamente le fondamenta risalenti ai primi anni del 1300.
La struttura venne adibita a dimora vescovile intorno al 1600, ma l'allestimento fu subito interrotto dalla necessità di un restauro, a causa di un dislivello che rendeva pericolante e inaccessibile l’edificio. Ventisei anni dopo, Michele Masserotti, bolognese, Vescovo di Bitetto, in carica dal 1624, diede il via ai lavori di miglioramento, che avrebbero dovuto includere anche la costruzione di alcuni locali per i più alti esponenti degli abitanti del centro antico.
Incerto è l’anno dello spostamento dei vescovi nel Palazzo, ma, secondo un documento dello Jacovelli, storico più famoso della provincia di Bari, tutti i vescovi, a cominciare da Paolo Raho fino a Marco-Antonio Tomati, non dimorarono mai nel Palazzo Vescovile, ma bensì nella chiesa più antica della città, Santa Maria la Veterana. Ma nel 1653, l’anno successivo alla rinuncia di Tomati al pontificato vescovile, venne eletto come Vescovo di Bitetto il bonario, presuntuoso e arrogante Francesco Gaeta, salernitano, amante della cultura e dello sfarzo.
Proprio per questa sua venerazione verso la bellezza, Gaeta commissionò dei restauri “eccezionali”, che coinvolsero quasi tutti gli uomini che vivevano nel centro storico, anche se il miglioramento era dedicato solamente alla rampa che conduceva all’ingresso principale della struttura.
Dopo la morte dell’amato Monsignor Gaeta ci fu la successione, nel 1729, del Monsignor Sangiovanni, un vescovo più “serio” e secondo alcuni commentatori più “capace” di qualsiasi altro vescovo. Ma poco prima della dichiarazione definitiva dei restauri, attesi da molto tempo, un terremoto con un magnitudo ed una intensità enorme, costrinse a Sangiovanni, abituato alle bellezze leccesi, di spostarsi nel più scomodo e affollato Convento dei Domenicani, costruito verso la metà del XVI secolo. Mentre i danni causati dal sisma degeneravano l’andamento economico dei cittadini, il problema di non possedere una dimora fissa per il Vescovo infliggeva quotidianamente la tranquillità della Diocesi, che perdeva pian piano potenza, ma alla fine si arrivò ad una decisione. Si sarebbe ricorso ad un incontro in Vaticano con Lorenzo Corsini, Papa Clemente XII, neo-pontefice, per iniziare i restauri, e far dunque diventare, nuovamente, Palazzo Vescovile il solito cantiere.
Sei anni dopo l’incontro del vescovo con il Santo Padre, inutile, Francesco Franco, eletto dopo la morte di Lazzaro Sangiovanni, decise di distruggere l’edificio tardo-rinascimentale, tranne le preziose assi medioevali che componevano le fondamenta, e ricostruire la struttura.
Poco tempo dopo venne eletto Fra’ Giacinto Maria Barberio, l’ultimo vescovo, molto occupato a mantenere la Diocesi perché non cadesse, una “missione” fallita, ma nell’agosto del 1792 decise di terminare i lavori interrotti da Franco, ormai deceduto, pagando una cifra molto grande: 1200 ducati.
Ma nel 1798, anno della morte di Barberio, la Diocesi, senza avere un vescovo, fu inglobata nell’Arcivescovado Barese, da qualche anno potentissimo, e Palazzo Vescovile diventò prima scuola e poi dimora di una famiglia borghese.