I Giganti di Fallistro: storia e cultura in una riserva di natura

I Giganti di Fallistro: storia e cultura in una riserva di natura

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I Giganti di Fallistro: storia e cultura in una riserva di natura
Focus

26 aprile 2023

Daniela Bruno, archeologa e Vice Direttrice Generale FAI per gli Affari Culturali, ci accompagna alla scoperta del bosco ultracentenario de I Giganti della Sila, in Calabria, per raccontarci che la natura e la cultura, in Italia, anche in un parco naturale, sono inscindibili.

Vista da vicino la Calabria non è come te l’aspetti. Quando si sale da Cosenza e ci si addentra nella Sila Grande su per i tornanti fino all’altipiano più grande d’Europa con i laghetti blu e le distese di pini, sembra il Canada o la Svizzera. Passi perfino davanti all’hotel Edelweiss, mangi funghi porcini, e c’è un parco nazionale che arriva quasi a duemila metri che è un vanto dell’Italia nel mondo.

Nel parco nazionale c’è una riserva affidata al FAI dal 2016, I Giganti di Fallistro: cinque ettari di paesaggio autentico della Sila, che viene dal latino silva, che significa “bosco”.

La riserva, infatti, è un bosco che custodisce 58 pini larici, alcuni di oltre 350 anni, alti fino a 45 metri, ed ecco perché si chiamano “I Giganti”.

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È una riserva biogenetica dove si proteggono specie autoctone a rischio di estinzione come i giganteschi pini. È un residuo del paesaggio autentico della Sila che è sopravvissuto al disboscamento. Si disbosca da secoli qui per lasciare spazio a campi e pascoli, ma nel 1987 a minacciare la riserva era anche una pista da sci o da motocross.

Dobbiamo dire grazie, allora, a Paola Manes, la baronessa Mollo, proprietaria con la sua famiglia dal 1631 del vicino Casino, che per salvare il bosco si è incatenata persino a un albero.

Dobbiamo dire grazie anche alle sue figlie che quel Casino seicentesco l’hanno donato al FAI che presto lo restaurerà e lo aprirà al pubblico.

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Ma immergiamoci nella riserva. Lungo i sentieri ci si sente in un safari, in una specie di parco preistorico dove i tronchi caduti sembrano dinosauri e la natura appare sproporzionata, gigantesca, appunto. Sorprende, dà le vertigini, risuona di fruscii, strepitii, il bosco respira, vive e pare perfino che due alberi si abbraccino. Ci si sente un po’ estranei, alieni in questa natura selvaggia.

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Il punto è che, visto da vicino, il bosco non è affatto selvaggio. È il residuo di un paesaggio autentico, sì, ma non di un paesaggio naturale, ma di un paesaggio culturale. Questo bosco, infatti, l’hanno piantato circa 400 anni fa proprio i baroni Mollo. Serviva a proteggere il loro Casino dai venti gelidi dell’inverno e a riparare le greggi. Coltivare il bosco, inoltre, dava un’ottima rendita.

Diceva già Cicerone che «un bosco è meglio di una vigna: basso investimento e rendimento sicuro». I romani furono i primi a sfruttare intensivamente i boschi della Sila.

Sottomesse le popolazioni locali, fecero della Sila grande un pezzo di ager publicus, territorio di proprietà dello Stato che aveva uso esclusivo di questo patrimonio di risorse naturali. Ma quali risorse? Innanzitutto il legname. Alti fusti come questi sono merce rara da millenni. Veniva dalla Sila per esempio l’albero maestro della nave più grande dell’antichità, progettata da Archimede per Gerone II, tiranno di Siracusa nel 240 a.C. Ma erano tronchi della Sila anche le capriate di trentatré metri della Basilica di San Pietro a Roma o le travi del tetto della Reggia di Caserta nel Settecento e forse anche qualche grattacielo di New York ha avuto uno scheletro dei tronchi della Sila, scelti come uno dei pegni da pagare agli alleati per la Liberazione dopo la Seconda guerra mondiale.

C’era un secondo prodotto di questi boschi su cui i romani avevano fondato un monopolio assai fruttuoso: la pece. I picari, o piciari, erano boscaioli silani specializzati che, dall’antichità e fino al secolo scorso, usavano incidere profonde e geometriche ferite nelle cortecce che trasudavano a primavera una resina pingue e odorosa dai mille usi. Scaldata in recipienti di rame e distillata era servita per imbalsamare le mummie egizie, per pozioni medicamentose contro l’artrite o i morsi dei cani, e anche per la cosmesi, ad esempio per la depilazione. Ma soprattutto, pezzi di legno intrisi di questa resina bruciati al fuoco, producevano la pece nera, che mescolata con l’aceto era fondamentale per impermeabilizzare gli scafi delle navi, per saldare le tubature, per sigillare le botti e le anfore da vino. “Appiccicare”, del resto, ma anche “impicciarsi” o “spiccicare”, sono parole che derivano dal potere legante della pece. Lo stampo Pix Brutia ritrovato sulle anfore a Roma o a Pompei era il marchio del monopolio romano della pece silana, che poi divenne monopolio regio nel Medioevo: solo il re disponeva dello ius picis, il diritto di estrarre la pece.

C’è infine un terzo prodotto di questo bosco oltre al legno e alla pece che lascia inconfondibili tracce proprio sui Giganti di Fallistro: la teda, che in latino significa “fiaccola”. La resina, che impregnava l’anima viva dei tronchi, era materiale infiammabile che faceva delle schegge di legno vere e proprie fiaccole e con cui si illuminavano le case. In dialetto “accendere il fuoco” si dice “appicciare” che viene da pece.

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Questi tronchi scavati fino al midollo che oggi sembrano capanne per gli gnomi dei boschi hanno dato teda – fiaccole – per secoli.

Ecco allora che, visto da vicino, questo bosco svela sorprendenti tracce dell’uomo e più che un safari nella natura ci si accorge di fare un viaggio nella storia.

La storia dei boschi della Sila è anche la storia di un’impresa umana e questo bosco, adesso, più che natura selvaggia, ci appare produttivo, quasi un’industria. Sembra un paradosso, ma è il bello del paesaggio italiano: la natura e la cultura, in Italia, anche in un parco naturale, sono inscindibili.

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