XXV Convegno Nazionale: La nuova dimensione culturale del FAI

XXV Convegno Nazionale: La nuova dimensione culturale del FAI

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XXV Convegno Nazionale: La nuova dimensione culturale del FAI
Focus

07 aprile 2021

Pubblichiamo il discorso di Daniela Bruno, Vice Direttrice Generale FAI per gli Affari Culturali, tenuto il 20 marzo 2021 in occasione della sessione plenaria del XXV Convegno Nazionale “Fondo per l’Ambiente Italiano; per quale Ambiente?”

Stamattina abbiamo chiarito per quale ambiente si adopera il FAI. Che effetto avrà tutto ciò sulle sue attività culturali? In pratica: cosa faremo di nuovo per dare il nostro contributo alla costruzione di un rapporto più equilibrato tra uomo e ambiente? Da cui dipende la salute di entrambi?

Vorrei dire subito che il FAI ha un suo programma per la transizione ecologica, che segue gli obiettivi dell’agenda ONU: non è facile efficientare beni storici, con tutti i loro vincoli, ma la sostenibilità è una priorità nei nostri restauri, nella manutenzione e nella gestione quotidiana.

Contenere le emissioni di CO2, riducendo i consumi energetici e compensandoli, risparmiare l’acqua, recuperarla e riusarla, ottimizzare il ciclo dei rifiuti riducendo gli scarti nei cantieri o valorizzandoli in agricoltura, produrre energia da fonti rinnovabili, allevare le api e coltivare la biodiversità nei nostri giardini, incentivare la mobilità elettrica e quella ciclopedonale con itinerari nei circondari per un turismo di prossimità.

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Applichiamo ai monumenti e ai paesaggi storici che tuteliamo l’innovazione per la sostenibilità, senza dimenticare le pratiche tradizionali dell’economia domestica, che spesso si rivelano comunque efficienti e di alto valore educativo: quest’inverno abbiamo riaperto i Beni, quando possibile, tenendo il termostato a 17° e le luci spente di giorno, e non solo per risparmiare energia, ma perché le nostre dimore storiche non sono musei, sono case, e così avrebbero fatto i loro storici proprietari (che d’estate avrebbero aperto le finestre e chiuso le persiane… non avrebbero acceso l’aria condizionata).

Vogliamo innanzitutto condividere questo impegno, perché il nostro atteggiamento di cittadini responsabili possa insegnare e ispirare. Dedicheremo perciò nei nostri Beni, a cominciare da Villa Necchi Campiglio a Milano, uno spazio apposito, allestito con strumenti innovativi, dove raccontare il nostro rapporto con l’ambiente: un resoconto aggiornato della sostenibilità del FAI, ma anche un manifesto della visione dell’ambiente per come oggi la stiamo delineando, tutt’altro che diffusa.

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Se chiedessimo oggi al nostro pubblico, infatti, cos’è l’ambiente, risponderebbe: la natura, cioè le piante e gli animali, l’acqua e l’aria; si fatica, nell’opinione comune, a riconoscere alla storia il suo ruolo di protagonista sul palcoscenico universale dell’ambiente. Se chiedessimo, poi, che ruolo ha l’uomo nell’ambiente, il nostro pubblico, informato e sensibile, risponderebbe: il colpevole, il responsabile della crisi che stiamo vivendo.

La responsabilità dell’uomo nella crisi ambientale è accertata: l’hanno chiamata Antropocene, un’era geologica che sarà distinguibile per milioni di anni dalle cicatrici che l’uomo sta infliggendo al Pianeta, cambiandone la struttura con la forza di una glaciazione o di un meteorite. Ma è stata data di quest’epoca un’altra definizione: Koinocene, dal greco koinos, comune. L’epoca delle connessioni, in cui tutto è legato e interdipendente, circolare, e in cui la Terra è un terreno comune in cui coabitano l’uomo e tutte le altre specie, esseri viventi e non, i cui interessi e destini sono incrociati.

«Se tutto è collegato, è difficile pensare che questo disastro ambientale non abbia alcuna relazione con il nostro modo di affrontare la realtà, fingendo di essere padroni assoluti della nostra vita e di tutto ciò che esiste». Dall’enciclica "Fratelli tutti" di Papa Francesco

È una definizione utile al nostro ragionamento, perché riporta in equilibrio Natura e Storia, superando una visione antropocentrica, ma anche una meramente naturalistica: entrambe, del resto, hanno contribuito a separare l’Uomo dalla Natura, in un divorzio dalle conseguenze drammatiche a larga e piccola scala.

Il gemello inglese del FAI, il National Trust, ha commissionato all’Università di Derby un sondaggio da cui emergono dati allarmanti: il rapporto degli inglesi con la natura tende a zero, soprattutto nelle giovani generazioni. Il 90% dei giovani intervistati non ha mai visto l’alba, l’83% non ha mai annusato un fiore di campo, il 77% non ha mai ascoltato un uccello cantare nel bosco; solo il 21 e 23% dichiara di essersi sdraiato su un prato a osservare le nuvole nel cielo o le stelle in una notte d’estate. E le percentuali salgono di poco negli adulti, pronti a riconoscere a queste esperienze, d’altro canto, un concreto beneficio.

Il National Trust ha avviato così una strategia per riconnettere gli inglesi alla natura, un programma di nove settimane con suggerimenti di esperienze da 20 secondi a 20 minuti, come una terapia: vai a leggere un libro seduto sull’erba, scatta foto agli alberi, fai crescere una pianta sul davanzale… Ci lasceremo ispirare da questa iniziativa per promuovere attività analoghe nei nostri Beni: occasioni di contatto con la natura, che spontaneamente – ne siamo certi - accenderanno desideri e curiosità, e semineranno nuova conoscenza.

Con questo scopo il FAI ha inaugurato l’anno scorso le Giornate FAI all’aperto, invitando gli italiani a visitare luoghi di natura: boschi, parchi, giardini e orti botanici, e offrendo nelle visite nuovi contenuti culturali. Faremo lo stesso nelle prossime Giornate FAI, dove non mancheranno visite e contenuti di questo genere: non solo castelli, ma anche orti botanici, e in un parco storico, non racconteremo solo la storia del proprietario e della sua casa, ma anche la storia dei suoi “coabitanti”: gli animali e le piante, gli alberi, i fiori, i frutti… Sappiamo così poco di questa dimensione dell’Ambiente che ci circonda… e quanto invece ci sarebbe da sapere, per smetterla ad esempio di appellare “vegetale” un soggetto passivo, che la dice lunga della nostra cultura sul mondo vegetale, tutt’altro che passivo…

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Questa vera e propria ignoranza - chiamiamola per quello che è – della natura nelle sue varie manifestazioni, e delle scienze naturali – non che quelle storiche siano messe meglio! -, impone oggi un’alfabetizzazione diffusa, cui vorremmo contribuire attraverso l’offerta culturale dei nostri Beni, ma anche affiancando scuola e università con progetti didattici e di ricerca dedicati, magari promuovendo “corsi” on-line per adulti: l’abbiamo fatto per la storia dell’arte, perché non farlo per la botanica?

Questa ignoranza, soprattutto, è una delle cause della poca attenzione alla salute dell’ambiente (per non dire alla nostra, se pensiamo a chi rifiuta ciecamente i vaccini… una vignetta, ieri, chiariva bene il rapporto improvvisato e irrazionale con la scienza che è emerso con la pandemia), e di una reazione ancora troppo timida alla crisi ambientale.

L’ambiente naturale è un mondo alieno, che non conosciamo e che in fondo non ci riguarda. Poi ho letto una frase di Alberto Magnaghi che ha parlato stamattina:

«Quel che stiamo distruggendo non è la Terra, che continuerà a ruotare oltre il tempo di sopravvivenza della nostra specie, che stiamo verosimilmente riducendo, e nemmeno la sua sottile copertura di suolo e di acque, che ha sostenuto e sosterrà un’infinità di nuove specie animali e vegetali. Stiamo distruggendo l’Ambiente dell’uomo, il territorio, la sua casa».

I profondi legami tra la natura e la storia rendono l’ambiente un affare che ci riguarda eccome, e che anzi, riguarda più noi che le piante o gli animali, che hanno una resilienza ben superiore all’uomo, come dimostra Cernobyl.

L’ambientalismo della prima ora è meritevole di aver salvaguardato, isolandolo nei parchi e nelle oasi, l’8% del Pianeta, ma non è riuscito a impedirci di arrecare moltissimo danno al restante 92%. Un nuovo ambientalismo, allora, se questo termine ha ancora senso di essere, deve insegnarci, più che come isolare la natura allontanandola dalla nostra vita quotidiana, come riportarcela e come convivere con essa.

Servirebbe un’etica nuova, basata più che sull’idea della natura incontaminata da salvare, su quella del giardino da curare. So di portare letteralmente “a terra” la riflessione, ma il giardinaggio è un’ottima pratica per promuovere un rapporto con la natura armonioso, costruttivo, cooperante e non dominante, consapevole e rispettoso dei cicli naturali e delle esigenze dell’uomo.

I Beni del FAI sono luoghi ideali in cui accendere una virtuosa passione per il giardinaggio, che inciteremo con nuove manifestazioni e attività e con un approfondimento dei relativi contenuti culturali.

L’etica del giardino ci aiuta anche a rivedere il concetto stesso di Terra, che non è più originaria, perché in millenni di civilizzazioni la Terra è diventata il nostro territorio: un ambiente ospitale per la vita umana e produttivo, con una storia, una cultura, un’identità, che dobbiamo proteggere e valorizzare, e anzi, che dobbiamo far sì che gli abitanti dello stesso territorio imparino a proteggere e valorizzare. Il nostro compito, allora, è risvegliare la coscienza dei luoghi nei loro abitanti, perché spesso sono loro per primi ad averla persa. Penso allora al successo dei Luoghi del Cuore: un progetto che ha lo scopo di risvegliare la coscienza di luogo negli italiani, che diventa orgoglio, locale e nazionale, e che si traduce in concreti interventi. E penso ai paesi spopolati delle aree interne montuose dell’Italia, di cui il FAI si occuperà con il Progetto Alpe: lì non faremo grandi restauri, ma offriremo contenuti e strumenti perché quei luoghi possano raccontare al pubblico, a partire dalle stesse comunità locali, il loro valore, la loro identità mista di Natura e di Storia. Dalla coscienza di luogo, dalla cultura, può muovere un nuovo sviluppo locale e anche una trasformazione del territorio, perché no?, consapevole e partecipata, da incardinare – non perdiamo occasione di dirlo - ai piani paesaggistici, ancora pochi e disattesi…

Un simile racconto lo facciamo già nei nostri Beni, ma vorremmo ampliarlo e approfondirlo nell’intreccio tra Natura e Storia.

Da questo intreccio, infatti, nascono paesaggi come il Giardino della Kolymbethra, con le sue centinaia di specie tra agrumi, ulivi e pistacchi ordinatamente coltivati da secoli: è tutt’altro che incontaminata, ma potremmo mai dire che non sia Natura? Non possiamo raccontarla dal solo punto di vista della Storia, ma neppure solo con gli occhiali del botanico, perché è un condensato di storia, cultura e tradizione.

E il Parco di Villa Gregoriana? Un parco romantico del tutto artificiale, nato nell’Ottocento per abbellire un radicale intervento di ingegneria idraulica che deviò il corso dell’Aniene: potremmo mai dire che non sia Natura? Eppure è una costruzione della Storia, come un monumento, che oggi rivela fragilità crescenti sotto la minaccia del cambiamento climatico.

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E la riserva dei Giganti nel parco naturale della Sila: natura incontaminata? Nemmeno per idea: un bosco di larici piantato nel Seicento, per proteggere un casino di caccia dai venti gelidi d’inverno, per ricoverare le greggi d’estate, e modellato nei tronchi a capanna dall’industria della pece, antica come i Romani.

Ecco allora che l’unità di Natura e Storia nell’Ambiente di cui ci occupiamo ci impone una visione più ampia, una conoscenza più approfondita e soprattutto multi-disciplinare; ci pone di fronte alla necessità di possedere noi per primi, e di impartire al nostro pubblico, rudimenti di scienze umane e naturali - archeologia e botanica, ingegneria idraulica e geologia, ecologia forestale e storia economica e sociale, e molte altre discipline interpretative e applicative -, per poter leggere l’ambiente che ci circonda cogliendone appieno il significato e il valore, e quindi la necessità di tutela.

Non vi nascondo l’entusiasmo di fronte a questa nuova sfida. È come se si schiudesse un campo di infinite possibilità, perché questa visione allarga lo spettro delle conoscenze che potremo acquisire e declinare in un caleidoscopio di nuovi progetti, nuove storie e nuove esperienze per il pubblico che ci seguirà e che visiterà i nostri Beni.

La multidisciplinarietà è una caratteristica della ricerca archeologica da cui provengo: la storia, per l’archeologo, si costruisce sull’analisi e sull’interpretazione scientifica di tante e diverse fonti, eterogenee ma ugualmente concorrenti, tutte degne e utili; grazie a questa multidisciplinarietà in epoca moderna abbiamo fatto scoperte sensazionali, e non solo in archeologia: il Koinocene, l’epoca delle connessioni, non può essere letta con un solo paio di lenti…

Non vi stupirete, allora, se visitando i nuovi scavi al Monastero di Torba vi parleremo di climatologia: una sequenza intatta di depositi limosi nella stratigrafia interna alla torre romano-longobarda è la traccia inedita, infatti, di un fenomeno climatico storico, che Paolo Diacono nell’VIII secolo descrisse senza ombra di dubbio: «in quel tempo vi fu un diluvio secondo solo a quello di Noè»; ed è anche la traccia storica di una fragilità endemica del suolo di Torba: il dissesto idrogeologico spazzò via un tratto delle mura antiche e ogni anno ci impone monitoraggi accurati all’arrivo delle prime piogge, che ugualmente racconteremo, facendovi inforcare gli occhiali del geologo.

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L’approccio multidisciplinare è capace di avvicinare il passato al presente, dando profondità storica al nostro agire, anche per uscire da un certo presentismo che domina soprattutto le giovani generazioni nate con una tecnologia che annulla le distanze temporali e geografiche: tutto è qui e ora, ma non è vero, è già stato, in altri tempi e in altri luoghi, e conoscerlo è un vantaggio competitivo.

È stata definita “la grande cecità” quell’atteggiamento di indifferenza e paralisi di fronte alla crisi globale che minaccia la nostra civiltà e la vita delle altre specie viventi sul Pianeta. Per riaprire gli occhi e agire serve allora un cambio di paradigma culturale, una cultura che ci permetta di percepire e comprendere l’ecosistema complesso di cui siamo parte. È questa la nuova dimensione della missione culturale del FAI.

Daniela Bruno, Vice Direttrice Generale FAI per gli Affari Culturali

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