17 novembre 2018
La Casa editrice Garzanti mi ha chiesto, immagino su suggerimento di Vito Mancuso, di presentare l'ultimo suo libro La via della bellezza. Nel 2017 Mancuso aveva presentato a Bologna un mio libro, L'antinomia ben temperata, edito da Utet, che affrontava temi simili a quelli a lui cari. Strano che un teologo e filosofo, abituato a trattare con i grandi della storia - meno uno, come vedremo - ami dialogare con un archeologo. D'altra parte è concesso forse anche agli archeologi di pensare oltre l'antichità, anche se ciò di frequente non accade.
In questo testo riassumo e riformulo l'essenza dell'opera che presento, considerata dal mio punto di vista. Constato che con Mancuso stiamo transitando da una concordia discors a un ampio consenso, per cui oramai non vedo più confini netti tra lui e me.
Nulla è più supremamente bello del nostro globo, soprattutto se lo confrontiamo con gli altri pianeti; compreso Saturno, incoronato dal perfettissimo anello che pare una delle gelide architetture di Boullée. Dopo un miliardo di anni di sterilità, la terra si è autofecondata, unendo il suo magma più profondo alla superficie del mare. Così è diventata matrice di vita - l'unica che conosciamo -, una vita che si è sviluppata nei successivi quattro miliardi di anni, fino a formare la vita umana cosciente di sé e del proprio universo, e ciò grazie una mente minuscola ma molto più complessa dell'universo stesso; infatti quest'ultimo è comprensibile tramite formule matematiche, mentre la mente umana rimane irriducibile a qualsivoglia ripetizione, esattezza e previsione, e proprio in questo sta la sua bellezza suprema ed eccezionale, come quella della terra che la ha generata.
Se è vero che la vita umana, colta nel suo insieme, comprende il bello e il brutto, il buono e il cattivo, il vero e il falso - come Mancuso sostiene - significa che il bello, colto al massimo livello della sua qualità ed estensione, contiene anche gli aspetti dolorosi e tragici dell'esistenza. Questo è un pensiero difficile da digerire per noi Italiani soprattutto inclini all'estetica, nel senso crociano del termine. A questo proposito Mann ha scritto una fase poco nota e quanto mai crudele per noi: "La bellezza per me è sempre stata roba da italiani e spaghettanti dello spirito (- ah poveri noi! -), roba senza nulla di tedesco… In questa sfera, l'etica è preminente sull'estetica, o più esattamente in essa si verifica un bilanciamento…, per cui al brutto si dedica onore, amore e sollecitudine. Il brutto infatti, la malattia e il decadimento altro non sono che l'elemento morale grazie al quale mai mi sono sentito un esteta…". Questa riflessione presuppone che la vita nel suo intimo sia paradossale, quindi per nulla semplice e unitaria e invece sommamente complessa e antinomica, come sostiene Mancuso nel suo libro. Ma cosa è l'antinomia?
L'antinomia, o "contrapposizione tra leggi", è un genere peculiare di paradosso che consiste nella compresenza di due affermazioni contraddittorie, che però possono essere entrambe dimostrate o giustificate. Primo esempio che mi viene in mente: l'emozione, che ignora il principio aristotelico di "non-contraddizione" - infatti noi possiamo a un tempo amare e odiare -, ma proprio la "non-contraddizione" sta a fondamento della nostra ragione. Secondo esempio: l'infinito, che è caratteristico di sentimenti - come "il dolce naufragare in questo mare" di Leopardi - e il finito che è caratteristico del pensiero fra loro competono entro una mente sola, che però non scoppia e anzi si sviluppa.
Nella vita, specialmente quella umana, non tutto è supremamente bello, come accade alle nuvole (immagine di Mancuso); infatti anche le nubi nere e trafitte da fulmini, oltre a spaventarci, ci affascinano… La sublime bellezza affiora nella mente come un miracolo quando un'azione, uno scritto, un'opera, una costruzione o un luogo - grazie a relazioni significative, a compromessi creativi e a formazioni di stile - giunge a indossare l'argenteo manto dell'armonia: la parola più cara a Mancuso. Allora i contrasti si conciliano in una bellezza che contiene anche la bruttezza, il disordine e la disgregazione. Ricordo che Britten aveva annotato in uno spartito: "evitare il bel suono".
Tutto si complica quando questa bellezza superlativa accoglie, come deve, anche la morale - ricordate il "bello/buono" dei Greci? Intendo qui la morale con il suo corteggio di contrasti: non solamente tra il bene e il male, ma anche tra due beni, come la libertà e la giustizia che tra loro configgono al punto che dove l'una stravince l'altra perisce. Tutto si complica ulteriormente quando la grande bellezza comprende oltre la significatività estetica anche quella storica; infatti un contesto è sempre un amalgama, in parte spontaneo e in parte congruo, che include ogni possibile gradazione di bellezza, compresa quella minima ma grandiosa e a me cara degli innumerevoli e anonimi muretti a secco, eretti nei millenni per contenere l'humus e gli alberi da frutto sulle nostre colline che sembrano merletti. Ricordo che la nostra Costituzione tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Nel Taoismo, che Mancuso evoca, il vuoto primordiale si scinde in Ying e Yang, elementi contrastanti che vengono raffigurati da un cerchio che ha una parte nera e una bianca, le quali tuttavia s'insinuano l'una nell'altra, avendo ciascuna al proprio interno un puntino bianco nella parte nera e uno nero nella parte bianca, come a dire che il cuore dello Ying palpita nello Yang, e viceversa. Anche l'antinomia della mente è fatta di diverse parti, teoricamente scindibili, ma che nella realtà sono sempre fra di loro intrecciate, per cui mai si danno allo stato puro. Ciò si riscontra spesso nel creato, perché solo in Deo omnia sunt unum; per cui solo in Dio regna una eterna e universale consonanza, che all'uomo non è data, pur essendo la creatura più altamente viva e consapevole del creato.
Nella evoluzione e poi nella storia dell'Homo sapiens non assistiamo al passaggio da un caos originario a una successiva armonia, come mi sembra d'intravedere in Mancuso, perché nella specie umana caos e armonia s'insinuano appunto incessantemente l'uno nell'altra, ora distruggendo e ora creando; almeno da quando la parola e il pensiero si sono affiancati alle emozioni, quindi a partire da circa 120.000 anni fa, che è come dire: ieri. Da allora l'emozione insinua l'indivisibilità e l'omogeneità nella ragione, che al contrario tutto divide, definisce e relaziona senza mai confondere, e viceversa. Questo è il segreto più intimo della nostra vita, che ha cominciato a essere svelato ne L'interpretazione dei sogni di Freud, opera che inaugura l'intero '900. Mancuso non racconta ciò e questa è la unica lacuna che constato nel libro, dovuta probabilmente a una concezione della psiche come entità inferiore allo spirito, alla quale io non credo.
Va aggiunto che le emozioni non rappresentano solo il disordine rispetto all'ordine della ragione, come vuole Mancuso. Altrimenti, mettendo in ordine il disordine, quest'ultimo svanirebbe e così la ragione potrebbe annientare le emozioni e il cosciente l'incosciente, similmente agli Olandesi quando hanno bonificato lo Zwidersee. Ma questa è una operazione impossibile, come constatiamo in ogni momento del nostro inquieto e quieto esistere. Al contrario, la funzione emozionale e inconscia è in noi perenne, indistruttibile, indispensabile e quindi strutturale. L'antinomia tra emozioni e ragione è dunque radicale, perché le emozioni conoscono spazi a più di tre dimensioni e anche il non-tempo - come constatiamo nei sogni, nella fulminante memoria e nell'estasi amorosa -, per cui le dimensioni spazio-temporali della ragione, alquanto ristrette, non riescono a entrare nella pluridimensionalità sontuosa delle emozioni; come mele dipinte, quindi a due dimensioni, non possono essere poste su un vassoio reale, quindi a tre dimensioni. Questa è la scoperta principale di Freud, portata a compimento da Matte Blanco, a cui devo anche il paragone delle mele.
Se così è, il sentire alto e pieno che raggiunge la bellezza quando è sublime sta nel cogliere il vibrare - termine di Mancuso - di questa antinomia, che a me pare un doppio vibrare, come quello delle corde sfregate contro i crini di cavallo in un violino, le quali contemporaneamente fremono nel partorire l'andamento del suono. Voglio scendere più nel banale, per farmi facilmente intendere: l'antinomia somiglia all'acceleratore e al freno: le forze contrastanti che consentono di guidare una macchina. La grande bellezza potrebbe essere vista come l'aspirazione dell'uomo a una divina armonia, che però mai è in lui stabile composizione ma solo tensione verso una consonanza a cui perviene quando riesce a produrre azioni, scritti, oggetti, costruzioni, luoghi e suoni nei quali riconosce il riflesso di Dio, come lui se lo finge: assoluto, universale ed eterno. Quanto più la vita è evoluta tanto più, a mio avviso, essa sovrasta l'armonia naturale - quella che avvertiamo nel nostro corpo - e si eleva a quella foce di afflati spirituali che spirano in opposte direzioni, felicitando e infelicitando l'io/l'anima/lo spirito, che per me, a differenza di Mancuso, sono una sola cosa, nell'incessante comporre e scomporre a cui siamo obbligati e inclini, similmente a Penelope al telaio nelle notti di Itaca. Senza l'antinomia non ci sarebbe il buono, il bello, il vero ma soltanto una placida soddisfazione o una fame feroce. Ma qui un poco mi correggo, perché alcuni pesci giocano spensierati nell'acqua e alcuni volatili gorgheggiano come la Tebaldi, non già quando si accoppiano, come si potrebbe pensare, ma quando gratuitamente si auto-rappresentano, per cui anche questi animali sembrano animati da un venticello spirituale, che riconosciamo anche nei occhi languidi e fidenti dei cani.
Più che sistemi puri e obbligati, l'uomo conosce, a mio avviso, contesti impuri anche se in parte congruenti, luoghi di variegata bellezza e bruttezza, come constatiamo nei paesaggi: lì una villa sontuosa e un giardino all'italiana, là semplici case contadine, oltre il denso tessuto di un centro storico e intorno una periferia triste con accanto una discarica abusiva. L'ordine da solo è sterile, non riuscirebbe a creare bellezza che invece è figlia di un intreccio, commovente e sapiente, insano e saggio, di tre e di più di tre dimensioni spaziali, di tempo e di non-tempo, di disordine e di ordine, di emozioni e di ragione: tutte opposizioni protese verso la continua contesa oppure verso una provvisoria armonia.
Quando però l'arcobaleno dell'armonia si dissolve, ecco che prevale la disarmonia e a concertare l'una o l'altra è in noi soltanto il nostro io, ora cattivo e ora buon regista del nostro modo di percorrere la vita, rovinandola o componendola.
Come ho già detto, la disarmonia è dovuta, prima ancora che al prevalere del caos sul logos, all'ardua penetrabilità dei diversi modi dell'essere a cui sopra ho accennato. Se Dio avesse creato, al contrario, un essere umano stabilmente armonico avremmo un suo doppio; mentre l'uomo è antinomico e quindi libero di scegliere il difficile bene o il facile male. Se in lui prevalesse invece l'unità, allora non avrebbe più molto da scegliere. Infatti il bello della vita sta nella capacità di regolare, tra eccessi opposti, la parte della mente che tendenzialmente prescinde dalla ragione e quella che prescinde dall'emozione, in direzione del migliore equilibrio concretamente possibile in una circostanza determinata.
Il mio consenso con Mancuso si accentua a partire dal paragrafo 45. Qui lui osserva che, se l'uomo arriva a una composizione dei contrasti, essa comunque si rivela provvisoria e instabile (come i compromessi politici). Le forze, contrapposte e in competizione, possono combattersi o compenetrarsi, repellersi oppure attrarsi, distruggere o creare. Pertanto nell'uomo l'armonia ignora un equilibrio che perdura e sta in un protendersi che a volte fallisce e a volte produce perle e tessuti dorati. Scrive Mancuso: "Oltre alla bellezza che è forma e che viene dal logos, ve ne è un'altra che deforma e viene dal caos". Riscontriamo facilmente quest'ultima a ogni biennale di Venezia. Anche il brutto e il disordinato possono essere irrorati di bellezza. A esempio, la dissonanza non è sempre nemica dell'armonia. Già Bach insinua nella trama architettonica dello spartito suoni contrastanti, che però poco dopo si risolvono in armonia e la grandezza della sua musica viene proprio da tale contrasto.
Nelle menti e nel mondo sono l'inconscio e il conscio e il brutto e il bello che permettono alla vita di fiorire. L'incanto per la bellezza e il dolore per il male determinano una bellezza più alta e fondamentale che riguarda il contesto conflittivo dell'esistenza. Nell'inventare l'uomo moderno, Shakespeare ha avuto una coraggiosa genialità - ritenuta barbarica da Voltaire (come mia moglie Mara mi racconta) -, quella di non limitarsi a un gusto indipendente dall'attrattiva e dall'emozione, per cui è riuscito a coinvolgere della sua poesia voluttà ed orrori, il comico e il tragico.
Approdiamo così al concetto del "sublime" che secondo Mancuso è legato a una complessità contraddittoria. Il sublime significa a un tempo ciò che attrae come bellezza e ciò che respinge come bruttezza. Sintetizza Mancuso: "È la risonanza della interiore condizione antinomica dell'essere". Qui mi sento all'unisono con lui. Infatti ciò che attrae fonde e confonde costituendo le praterie infinite dell'emozione; mentre ciò che respinge definisce e distingue rappresentando il campo divisibile, misurabile e plurale della ragione. Le emozioni tendenzialmente poco si curano e della ragione - come fa il gatto con il cane che stupito lo guarda -, mentre la ragione vorrebbe illuminare le oscurità delle emozioni ma ha possibilità scarse di riuscirvi, ché il finito e l'infinito sono tra loro incompatibili. Infatti, mentre il finito è immediatamente pensabile, l'infinito è soltanto "pensicchiabile": un utile neologismo di Matte Blanco. Sfidiamo l'antinomia che ci consente di vivere quando la parte più cosciente dell'io - quella spirituale secondo Mancuso - tenta di trascenderla, inseguendo il miraggio dell'armonia, il quale però si risolve a volte in una oasi vera, come Gadames. Allora finalmente raggiungiamo una emozione intelligente e una intelligenza emotiva. Nell'antinomia costitutiva dell'essere non vi è coincidenza di opposti né superamento dialettico, ma è possibile invece che un io equilibrato, creativo e vitale sappia governare bene le forze contrapposte ma essenziali - infatti senza ragione le emozioni si perdono nell'eccesso e senza emozione la ragione manca di energia -, in tal modo raggiungendo l'apice della incoscienza/coscienza in cui noi, figli di Dio, angeli e anche demoni, siamo immersi.
Inserisco qui una riflessione di Matte Blanco sull'arte. Pensava a questo proposito che nell'aspetto pensante dell'emozione si esprimesse oscuramente l'indivisibile che la caratterizza. considerata in termini d'infinito… Sintesi questa in cui il pensiero dividente riesce a diventare uno con l'emozione indivisibile, senza tuttavia che nessuno dei due perda alcunché della propria peculiarità. Matte Blanco aggiunge che quando Valery ha scritto dell'amore "armato con gli sguardi dell'odio" resta nella logica della ragione eppure trasmette anche qualche cosa del mondo che l'emozione sente come indivisibile e che il pensiero vede come infinito. Così nelle poesie di Valery il modo indivisibile di essere, proprio dell'emozione, irrompe con tutta la sua forza, ma vestito impeccabilmente con il solo tessuto della logica aristotelica, che è proprio della ragione. Allora il mondo del pensiero occupa straordinariamente tutta l'estensione del mondo del non-pensiero, senza che nessuno dei due disturbi l'altro. Insomma, il tratto distintivo dell'arte sarebbe, per Matte Blanco, quello di contenere l'indivisibile come parte essenziale di sé; il che vale anche per una buona vita.
Se ne ricava che l'inconscio e il conscio sono entrambi fondazioni della umanità di pari rilievo; solo che la ragione è comparsa per ultima nell'evoluzione, per cui è come una parvenue… Né la ragione è più vicina a Dio, ché l'aspetto del divino in noi mi sembra stare, non in un angolo o nell'altro della mente, ma proprio nel suo tutto paradossale, che rappresenta il dio del cielo tradotto in terrena attuazione. L'aspetto del divino si rintraccerebbe dunque nell'interfaccia fra il campo del sentimento e quello del pensiero.
Allora il cuore della bellezza pare stare nella relazione più equilibrata e vitale che siamo in grado di stabilire entro i crogioli dell' antinomia personale e sociale. Non si tratta della bellezza isolata dei capolavori, ma di quella estesa fino a comprendere l'holon, la vita nella sua integrità, comprese le opere della fatica e dell'ingegno. Come non stupirsi di un mastodontico torchio ligneo a vite senza fine per spremere l'olio e il vino usato dal tempo di Cesare fino al nostro ultimo dopoguerra?
Ma se armonizzare significa congiungere elementi originariamente diversi come una cosa sola, perché la congiunzione possa realmente avvenire occorrerebbe che gli elementi fossero tra loro compatibili. Ma allora come parlare di armonia quando è in gioco l'antinomia, che a una prima impressione parrebbe il suo contrario? In questo libro Mancuso risolve la contraddizione immaginando una armonia di tipo nuovo: discordante, drammatica e tragica. E una "armonia disarmonica" o una "disarmonia armonica", difficile da pensare - tanto che ci manca la parola per distinguerla - ma che fortemente sentiamo, ormai molto vicina alla Antinomia ben temperata dalla quale le mie riflessioni sono partite. Questa proposta di Mancuso oggi convince anche me. Grazie Vito, è bello sentire e pensare con te.
Concludo con una gemma di Marco Aurelio, che è nel libro di Mancuso. Secondo l'imperatore filosofo, che segna il culmine dell'Impero romano e l'inizio della sua decadenza, un frutto è gustoso soprattutto quando sta per marcire. Potremmo dedurne che una bellezza è al massimo godibile quando è giunta alla soglia della bruttezza, per cui è "sublime". Non è più una bellezza pura nella sua traiettoria ma deviata e arricchita grazie al paradosso antinomico. Siamo, una volta ancora, di fronte all'uomo "storto" di Kant.
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