29 aprile 2015
Sono 60 le concessioni italiane di sfruttamento di petrolio attive in Adriatico, mentre sono 19 i permessi di esplorazione, molti addirittura entro le 12 miglia delle acque territoriali. Questo dato è impressionante: si tratta di oltre 13.000 kmq su una superficie totale di 138.600 kmq. Il Mar Adriatico è il mare italiano che conta la maggiore presenza di piattaforme per l'estrazione di idrocarburi, numero che andrà ad aumentare se verranno approvate le 29 istanze di concessione per sfruttamento o ricerca che sono in corso di valutazione. Si tratta di ulteriori 56.000 kmq di Mare Adriatico interessati dallo sfruttamento, il 41% della superficie totale.
Se a questa situazione sommiamo la volontà della Croazia di espandere ricerca e sfruttamento sul modello italiano, capiamo così la pressione a cui è e sarà sempre più sottoposta questa piccola area semichiusa del mediterraneo, rispetto all'inquinamento, all'impatto sul paesaggio, alla esposizione al rischio di incidente. Una porzione del mediterraneo delicatissima, che produce metà del pescato nazionale e ha una forte valenza turistica.
“A differenza della Croazia, però, che ha presentato un programma di ricerca e produzione degli idrocarburi, l'Italia da anni approva nuovi interventi uno a uno, su richiesta di operatori privati – ha detto Giulia Maria Crespi, Presidente Onorario del FAI – senza avere così una visione complessiva dell'impatto sull'ambiente marino e costiero e sulla pesca e sul turismo. Un approccio questo inaccettabile, proprio di una politica energetica obsoleta, dannosa e senza regole, che non fornisce la dimensione complessiva dello sfruttamento e il connesso rischio di incidente”.
“Questa ‘deregulation', avviata con il Decreto Passera nel 2012, è stata accentuata dal Decreto Sblocca Italia – ha continuato Maurizio Rivolta, Consigliere Nazionale del FAI. – che definisce le attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi come attività di ‘interesse strategico e di pubblica utilità, urgenti e indifferibili' e ha poi accelerato la procedura con il rilascio di una concessione unica entro 180 giorni, sia per la fase di ricerca che di coltivazione, limitando considerevolmente il ruolo delle Regioni”.
Il caso oggi più eclatante e simbolico è quello che si sta verificando al largo della costa teatina, in provincia di Chieti (Abruzzo). Questa porzione di costa, verdissima, fulcro dell'omonimo parco in via di perimetrazione, paesaggisticamente e naturalisticamente molto rilevante, è infatti interessata da diversi nuovi pozzi di coltivazione di idrocarburi. Il 15 aprile scorso è stato firmato dai ministri dell'Ambiente e dei Beni culturali il parere di compatibilità ambientale per 4 nuovi pozzi per la piattaforma Rospo Mare, 11 miglia a largo di Vasto, ma due altre istanze di concessione, Ombrina Mare e Elsa 2, molto vicine alla costa, hanno già ottenuto il parere positivo dei tecnici della commissione VIA e sono ora alla firma dei ministri competenti. Praticamente è coperto tutto il fronte della costa teatina, con un progetto a nord (Elsa2), uno al centro (Ombrina) e uno al sud (Rospo mare). “Nel 2013, 40.000 persone hanno sfilato a Pescara contro questi progetti e ancora oggi molto forte è la contrarietà dei territori interessati e delle associazioni ambientaliste. Il FAI chiede ora una pausa di riflessione al Governo – conclude il Presidente Onorario del FAI – che deve bloccare le nuove concessioni, a partire da Ombrina Mare e Elsa2, e deve dotarsi subito di un programma quadro, che oggi manca clamorosamente, da utilizzare per le future valutazioni, considerando però anche gli effetti di quelle già rilasciate”.
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