18 novembre 2015
Un discorso cominciato con il dibattito che si è svolto, con la partecipazione del ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, sulle tesi di Giuliano Volpe, il 13 ottobre a Palazzo Altemps (Roma), con un intervento di Andrea Carandini. Di seguito il suo intervento.
Scelgo due frasi nell'ultimissimo libro di E. Scalfari "L'allegria, il pianto, la vita": “La fine del viaggio comincia con il lento spegnersi della curiosità per il futuro…” “L'assetto attuale mi è estraneo… Altro non so fare che un lascito…”.
A me invece il futuro attrae ancora, preferisco il mondo di oggi a quello trascorso e alle eredità delle generazioni ultime poco credo, vista la palude in cui ci troviamo: colpevolmente fermi da decenni! La vita creatrice non può essere statico “monismo” nel quale sempre gli stessi detengono la verità, pontefici esclusivi di un'antropologia in cui non vi è da scegliere. La vita creatrice sta invece nel “pluralismo” aperto e in costante mutamento, nel quale nessuno ha il monopolio della bellezza e del bene (di ciò ho scritto ultimamente in "Paesaggio di idee").
Ci troviamo in una crisi epocale, sperduti anche nelle idee. La crisi riguarda il cattolicesimo giunto alla riforma in ritardo di cinque secoli e riguarda il comunismo drammaticamente smentito dall'esperienza. Sono queste le due grandi chiese che poco spazio hanno lasciato in Italia a ogni altro pensiero, come il liberalismo di sinistra ridotto a un liberl-socialismo di matrice azionista, nel quale pensieri diversi – come quelli di Croce e di Gramsci – sono stati combinati – come nel “Crociogramscismo” - in modo al tempo stesso da reciprocamente conquistarsi e impoverirsi: Grecia capta… Da questo punto di vista, altamente simbolici sono i pianti di Scalfari per due morti: quella di Mario Pannunzio, direttore de Il Mondo e liberale di sinistra (non azionista), e quella di Enrico Berlinguer, amatissimo segretario del PCI. L'esito di questa storia, tutta italiana, è stata una destra esaltatrice di atavici difetti e una sinistra rivolta spasmodicamente all'indietro: esiti entrambe di esagerazioni, seppure di genere opposto. Il tutto è andato a danno della azione misurata, della riforme in senso liberal-democratico, che sono necessarissime se si vuole istituire, non un utopico paradiso e reale inferno - non un amalgama ideologico di idee che non si fondono - ma una società “decente”, cha ancora a noi manca, a partire da questa infelicissima Roma.
Il quadro che a lampo ho qui schizzato ha condizionato ogni aspetto della nostra vita e quindi anche l'amministrazione del paesaggio e del patrimonio culturale, attuata fino ad ora in maniera autoreferenziale, a volte arbitraria, sovente elitistica, entro una società che invece è di massa e che al godimento della cultura non è stata chiamata, per il decadimento progressivo dell'istruzione scolastica e universitaria, la chiusura delle corporazioni e la mancanza di ascensori sociali. I miei pubblici dolori stanno tutti in questa contraddizione: la mancanza di una cultura alta e democratica, capace di ridare l'Italia agli Italiani – è questo il titolo del manifesto di Daniele Manacorda -, in un modo che sia avverso tanto ai corporativismi quanto alla demagogia. Se al manifesto di Manacorda si affianca questo di Giuliano Volpe, che si intitola Patrimonio al futuro, s'intende il contributo speciale dato dall'archeologia militante a una idea olistica e contestuale della nostra ricchezza culturale, critica sia del vincolismo che dei restauri, esaltatori entrambi del puntiforme e sostitutivi questi ultimi della manutenzione programmata, la quale implica quella prevenzione diffusa sul territorio ideata da Giovanni Urbani, introdotta nel Ministero dal Segretario Generale Roberto Cecchi e varata dal Consiglio Superiore da me presieduto, ma dopo di noi subitamente respinta e celata dall'alta burocrazia che ha prevalso, quella che a ogni visione strategica ha preferito soluzioni ad hoc e interessi particolari. Mi auguro che il ministro Franceschini e il presidente del Consiglio Superiore Volpe favoriscano al più presto una stagione nuova, capace di dare finalmente a Pompei la seria conoscenza e la conseguente manutenzione programmata che ancora mancano, che sappia sperimentare in almeno una regione il piano ideato da Urbani per l'Umbria tre decenni fa e che sappia condurre autorevolmente ai piani paesaggistici in tutto il Paese, anch'essi ancora mancanti salvo che in due Regioni.
I 32 capitoletti di Volpe toccano temi che stanno a cuore anche a me, per cui sono balsami su ferite antiche. Ne tocco soltanto alcuni. Ha una prima ragione Volpe nel valutare nel complesso positivamente la riforma Franceschini, perché è il primo tentativo del Ministero di dare risposta al comma dell'articolo 9 della Costituzione riguardante la promozione della cultura, comma dimenticatissimo rispetto all'altro, al contrario ricordatissimo, riguardante la tutela. Promozione della cultura per chi? Evidentemente per coloro che della cultura non hanno ancora personale esperienza e godimento. Il tempo dirà se la riforma Franceschini funzionerà. Se non funzionerà, bisognerà ripensare a qualcosa come la “Agenzia” – ideata da Massimo Severo Giannini e ricordata da Volpe – però non già per la tutela, che dovrebbe restare al Ministero, ma per la valorizzazione e la gestione, che di una cosa soprattutto hanno necessità: del diritto privato incorporato nel Codice Civile. In un libro a giorni in libreria, intitolato Abecedario. Come proteggere e valorizzare il patrimonio culturale italiano, Roberto Cecchi – un altro riformista – sostiene che il Ministero è inadatto strutturalmente alla gestione, ed è materia che lui ben conosce. Aggiungerei che, mentre per la tutela bastano gli hard skils che sono quelli delle discipline tradizionali, per la valorizzazione e la gestione servono in primo luogo i soft skils, di cui ha trattato ottimamente Roger Abravanel in La ricreazione finita: ottimo libro per capire la società post-industriale in cui viviamo. Per ricollegare il popolo al paesaggio e al patrimonio servono dunque sicuramente i soft skils, di cui il Ministero non è consapevole: ma fino a che punto? Una sola cosa rimane ferma: la necessità di separare al più presto la funzione del “controllo” da quella della “gestione”, insopportabilmente fuse in pieno contrasto con ogni idea di distinzione e bilanciamento dei poteri. Di qui un grande e taciuto conflitto di interessi e un potere per vari aspetti arbitrario, che hanno allontanato molte persone dall'amore per il patrimonio culturale, come mostrano le ormai irrefrenabili deroghe al Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, votate a larga maggioranza, che addosso ci piovono.
Una seconda ragione ha Volpe nel preferire sul territorio unità operative miste che lavorino in un gruppo. L'aver tenuto separata l'archeologia può soddisfare una logica corporativa ma è anche il modo migliore perché la logica contestuale, carissima agli archeologi militanti, mai arrivi a controbilanciare la logica antologica connaturata agli storici dell'arte.
Infine ha una terza ragione Volpe nel proporre un'alleanza dei riformisti, cioè di coloro che all'attaccare preferiscono il fare. Ciò implica risolvere almeno tre problemi.
Primo problema: lo Stato deve riprendere il controllo ambientale e culturale del territorio, vista la cattiva prova data dalla maggioranza delle Regioni.
Secondo problema: fra paesaggio, patrimonio e turismo da una parte e Università dall'altra bisogna stabilire una cooperazione stabile su due temi: il tema dei “policlinici” del paesaggio e del patrimonio culturale, nei quali si possano formare i giovani sul campo e sulle cose - non solo su immagini estranee alla pratica – coniugando hard e soft skils; il tema dell'informatizzazione degli archivi delle Soprintendenze e dei dipartimenti umanistici al fine di creare GIS territoriali comunicanti, utilissimi per conoscenza, copianificazione e controllo da parte di un personale sempre più ridotto nell'organico(a questo proposito due commissioni ministeriali hanno portato a termine un ottimo lavoro, rimasto lettera morta e da risvegliare).
Terzo problema: bisogna attuare sempre meglio l'articolo 118 della Costituzione, per il quale la Repubblica “favorisce” le autonome associazioni dei cittadini rivolte a perseguire l'interesse generale. Il Ministro Franceschini è stato il primo a mostrarsi fattivo anche a questo riguardo. Solo in una società illiberale, chiusa, si può immaginare di contrapporre la società civile organizzata all'amministrazione istituzionale. Molti statalisti, nemici di ogni attività privata seppure rivolta alla pubblica utilità, mostrano di ignorare Tocqueville, il pensiero liberal-democratico che ne consegue e lo stesso principio costituzionale della “sussidiarietà”. Parlando del FAI Franceschini ha detto la vostra battaglia è la nostra.
E' esistito un tempo un catechismo dei beni culturali e chi se ne discotava reprobo era. Si trattava una raccolta di pensieri fatti, magari già utili a qualche passata società, ma mai più creativamente vagliati in relazione alla società di oggi e rapportati a pensieri originali. Oggi al contrario fioriscono modi diversi di interpretare i bisogni culturali della nostra società ed è grazie al loro libero concorrere che politici, amministratori e privati potranno scegliere le idee più feraci, le pratiche più efficaci. Le società vitali non languiscono ma si ricorrono e quando da una società ferma come la nostra si va periodicamente a visitarle, ci si sorprende di quanto mutino in breve lasso di tempo(è questa per esempio esempio la mia esperienza con il National Trust). Il riformismo predilige la mitezza ma sa essere anche molto determinato.
Un ultimo pensiero vagante. Bisogna ridare al Colosseo il pavimento che la storia gli ha lasciato e che gli archeologi gli hanno sottratto. Ma completato il pavimento, dal corridoio sotterraneo centrale potrebbe emergere, la sera, un grande schermo, pronto a scomparire la mattina, attorniato da cuscini in terra per l'uso pubblico. Lì potrebbero darsi spettacoli multimediali come quelli magnifici e fortunati sui Fori di Cesare di Augusto organizzati dal Comune di Roma. Tramite immagini immateriali si potrebbero raccontare a una folla poco consapevole momenti e luoghi di una città che non ha un confronto nel mondo, rendendo noi e i nostri ospiti consci del luogo dove è nata la civiltà occidentale, aperta - i re di Roma sono stati tutti stranieri – e universale – nel senso che la chiesa ha ereditato da Pietro e Paolo e dalla Roma imperiale. E' nel Colosseo che la nuova politica culturale italiana potrebbe in primo luogo e con enorme efficacia manifestarsi al globo. Non perdiamo questa occasione! Così, pezzo a pezzo e a partire da Roma, potremmo realizzare il solo sogno attuabile senza sopprimere valori primi: quello di una città e di una patria “decenti”, nella quale possano convivere il decoro morale legato al bene, quello significativo connesso alla storia e quello estetico proprio delle opere d'arte. E' il kaloskaiagathos degli antichi Greci, l'idea di bellezza allargata che la contemporaneità ha tradito per la unilateralità imposta da Mammona.
Andrea Carandini, Presidente del FAI
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