Pinin Brambilla: I muri raccontano, bisogna saperli ascoltare!

Pinin Brambilla: I muri raccontano, bisogna saperli ascoltare!

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Pinin Brambilla: I muri raccontano, bisogna saperli ascoltare!
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14 dicembre 2020

In ricordo di Pinin Brambilla, la restauratrice più famosa d’Italia scomparsa il 12 dicembre 2020, pubblichiamo la sua ultima intervista apparsa sul notiziario n° 156: al cantiere del Monastero di Torba si è raccontata al Vicepresidente Esecutivo Marco Magnifico.

A 95 anni, Pinin Brambilla Barcilon è tornata tra gli affreschi del Monastero di Torba. Una lezione di classe; anche in mezzo a un cantiere lei è sempre «sorridente, ben pettinata, con degli orecchini splendidi, in una parola: perfetta».

Il Vicepresidente Esecutivo Marco Magnifico le dedica parole e accoglienza da diva, del resto lei lo è. Stiamo parlando della signora che tra il 1978 e il 1999 ha compiuto il restauro dell’Ultima Cena di Leonardo Da Vinci, il più importante di sempre. E poi le pitture di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, gli affreschi di Masolino da Panicale nel Battistero di Castiglione Olona, l’elenco è infinito. Non solo pratica ma anche teoria: nel 2005 ha fondato il Centro per la Conservazione e il Restauro “La Venaria Reale”. Ora è di nuovo al Monastero di Torba, come quando si torna al primo amore. Lì dove tutto è iniziato anche per il FAI. Aperto al pubblico dal 1986, è stato uno dei primi Beni della Fondazione: era il 1977 quando Giulia Maria Crespi, su insistenza di Franco Russoli, comprò il complesso monastico (immerso nel parco archeologico di Castelseprio, oggi insieme alla Torre di Torba Patrimonio Mondiale dell’Unesco) per donarlo al FAI. La Torre, era in balia dell’incuria e delle intemperie: sulle pareti, sotto l’intonaco bianco, affioravano brandelli d’affresco, i visi di alcune monache. Le mani sapienti di Pinin Brambilla, chiamata a Torba nel 1978 da Carlo Bertelli, si misero all’opera riportando alla luce e restaurando, sotto lo sguardo attento di Renato Bazzoni, gli affreschi d’epoca longobarda, ancora conservati sotto l’intonaco contadino. Negli anni successivi il FAI si è impegnato nella cura delle pitture murali, affidando allo studio di Pinin Brambilla campagne di manutenzione e restauro, come quella del 2007 e di oggi. Un nuovo intervento (cofinanziato da Regione Lombardia e dal generoso contributo di Andreina Pizzi), si è reso necessario per il precario stato di conservazione di alcune porzioni d’affresco e per la perdita di tono e forza nei colori e nei tratti. E Pinin è di nuovo lì, a dirigere il cantiere sugli affreschi della Torre, a prendersi cura delle monache salvate ormai quarant’anni fa: con la sua squadra è al lavoro, si consolida, si mette in sicurezza, si integra con ritocchi ad acquerello e velature, si restituisce leggibilità e plasticità come ai panneggi del velario sotto il Cristo. Operano gomito a gomito; per lei non era stato sempre così.

Ne ha chiacchierato insieme a Marco Magnifico.

PININ BRAMBILLA: La mia gavetta è iniziata con un grande, Mauro Pellicioli, ho partecipato al restauro degli affreschi del Foppa alla cappella Portinari, nella basilica di San Eustorgio a Milano, ma quando Pellicioli arrivava in cantiere io dovevo scendere dall’impalcatura e mettermi seduta in chiesa. Lui non voleva vedere donne arrampicate sul ponteggio.

MARCO MAGNIFICO: Una gavetta dura.

PB: Mi ha fatto piangere, e tanto. Perché all’epoca donne restauratrici non ce n’erano, erano tutti maschi. Nessuno ti aiutava, nessuno ti incoraggiava. Quando arrivavo a casa non dovevo farmi vedere piangere da mia madre, sennò mi avrebbe detto: "sei scema? Cambia mestiere, no?" (ride).

MM: Training feroce però efficace, se poi è diventata così brava. Ecco, quanto è servita questa scuola così dura?

PB: Ho imparato a guardare. Non a prendere in mano il pennello e intervenire, perché Pellicioli non me l’avrebbe mai permesso. Però ho imparato ad osservare, a vedere come si faceva. Ai tempi il restauro era completamente diverso.

MM: Questo è molto interessante, cosa vuol dire imparare a vedere? Che doti servono? Perché io, che la conosco da tanto, quando la vedo al lavoro ho sempre la sensazione di una grande lentezza, e di un grande silenzio tra lei e quello che le sta di fronte, come in un dialogo muto…

PB: È così, perché il restauratore è un artigiano. Lavora con le mani, ma anche con la testa e con il cuore. Deve capire chi era il pittore, quali erano le sue titubanze, le difficoltà che può avere incontrato, se le ha superate. Un dialogo muto per capire cosa voleva dire, come ha risolto i suoi problemi. Adesso la tecnica ha prevalso su tutto questo. Nessuno si mette in ascolto, e si vede, c’è una freddezza di restituzione, di ripulire tutto in maniera dura, che è sbagliata.

MM: Quando lei ha iniziato a collaborare con il FAI, la Fondazione era poco più che una scommessa, di Giulia Maria Crespi e ancor di più di Renato Bazzoni, che ci credeva con tutto se stesso. Ed ecco che arriva a Torba non una trovatella qualsiasi ma addirittura Pinin Brambilla…

PB: Mi aveva portato Carlo Bertelli, lo storico dell’arte, che è un appassionato di quel periodo, e insieme avevamo cominciato a guardare, anche se non si vedeva un granché perché era tutto coperto dall’intonaco. Fino a circa un secolo fa queste pitture antiche non interessavano molto, dunque ci passavano una pennellata di calce, coprivano tutto e via. Ci sono molte case in Lombardia di quel periodo, con tutte le pareti scialbate. A Torba era stato difficile togliere tutta quella massa di intonaco, perché si trascinava anche l’affresco che era sotto. Un lavoro certosino, ma l’entusiasmo non ci mancava.

MM: Per il FAI poi era l’occasione di far decollare tutto il progetto. Era stato Russo a dire, c’è quella torre romana a Castelseprio, perché non andate a darci un’occhiata? Così Giulia Maria Crespi la comprò, incoraggiata da Bazzoni. Com’era il suo rapporto con Bazzoni?

PB: Oh, era un uomo delizioso, si entusiasmava per ogni piccolo frammento di colore che veniva fuori. L’ho seguito in molti lavori, per esempio quello del Castello di Manta, vicino a Cuneo. Mi sono divertita da matti con tutte quelle figurette di eroi, eroine, cavalieri, con questi vestiti magnifici…

MM: A proposito di figure, ci racconta come andò con la storia della testa della monaca finita nel baule della macchina rubata? È troppo divertente, lei la staccò…

PB: La portai via perché si stava staccando da sola.

MM: E l’ha messa in una scatola di scarpe…

PB: Di cartone. La stavo portando in studio, mi fermo per un caffè e quando torno l’auto era stata scassinata e la scatola non c’era più. Ma va detto che la testa era molto rovinata, quasi evanescente.

MM: Sa, Pinin, il fatto che lei abbia lavorato in tanti cantieri del FAI è stata una testimonianza importante, specie nei primi anni. Sapere che la restauratrice più importante in Italia lavorava per il FAI era una lancia spezzata a favore di questa piccola Fondazione verso la quale c’era anche un po’ di sospetto. Lei cosa pensava di questo esperimento italiano?

PB: Ne pensavo molto bene. Il National Trust in Inghilterra funzionava bene e in fondo era lo stesso modo di fare, di costruire.

MM: Il fatto che lei sia tornata, posso dirlo? alla sua veneranda età, a lavorare a Torba, vederla di fronte a quegli stessi affreschi, quarant’anni dopo, è un’emozione. Il suo rapporto con quegli affreschi è lo stesso, o rivedendoli oggi non farebbe alcune delle cose?

PB: Il problema, difficile da comprendere anche per i visitatori, è proprio questo. Ci sono lacune bianche dovute a una preparazione sottostante agli affreschi; quelle grigie invece le abbiamo fatte noi dove mancava completamente tutto. Ma io non posso mettere un intonaco grigio sopra la preparazione bianca, perché fa parte di com’è nata la stanza. Ci sono tante cose che ti costringono a fermarti e ragionare.

MM: Da quello che dice, è evidente che rispetto a quarant’anni fa il lavoro è molto cambiato. Allora si trattava soprattutto di salvare dei monumenti dall’abbandono, come Torba che altrimenti sarebbe crollata. Oggi invece l’importante è far capire ai visitatori cosa è stato fatto. Insomma, il nostro lavoro oggi è soprattutto di narratori. Quanto è cambiato il concetto di restituzione nel contesto del restauro?

PB: Ci sono state molte evoluzioni. Nel passato si intonacava tutto per avere un ambiente liscio, poi nell’'800 molte cose si sono recuperate, penso al famoso Salone sulla Rocca di Angera; è emersa l’idea di restaurare tornando a rifare le parti mancanti, insomma la restituzione.

MM: Ma il suo rapporto fra il neutro e l’integrazione è cambiato negli anni?

PB: Leggermente. A favore di un’integrazione piccola, visibile, che si noti che quello è un rifacimento. Come il velario sotto il Cristo di Torba, abbiamo sottolineato le pieghe altrimenti il visitatore non capisce che quella è una stoffa.

MM: E questa severità del maestro, questa attenzione costante…

PB: È disciplina. Se io vedo anche solo un pennello per terra mi arrabbio da morire, perché la pulizia, l’ordine, è una questione di disciplina mentale.

MM: Ecco, io credo che dobbiamo impegnarci a raccontare la complessità degli interventi e delle stratificazioni di questa stanza, far capire ai visitatori le differenze, gli strati, la storia che c’è su un muro. Siamo abituati a leggere storie nei libri: leggerle su un muro è l’esercizio bellissimo che possiamo offrire ai visitatori. Sperare che abbiano lo stesso rapporto che ha lei. E chi lo sa, magari scocca la scintilla.

PB: La materia può raccontare molto, se uno ha la pazienza di ascoltare. È questa la cosa fondamentale che s’impara: ci vogliono esperienza e sensibilità.

Articolo apparso sul Notiziario del FAI n° 156 settembre – ottobre – novembre 2020

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