Piccoli incontri con grandi architetti

Piccoli incontri con grandi architetti

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Piccoli incontri con grandi architetti
intervista a Enrico Arosio

10 maggio 2012

Un “intruso”. Così si definisce Enrico Arosio, giornalista dell’Espresso che per quindici anni ha vissuto a stretto contatto con l’impenetrabile mondo dei grandi architetti internazionali, personaggi ammirati e discussi, in grado di trasformare radicalmente l’identità delle città europee e americane. Un rapporto privilegiato che gli ha permesso di conoscerne in profondità le diverse personalità, le visioni, le sfide. Oggi, Enrico Arosio ha deciso di trasportare il suo ricco bagaglio nelle pagne del nuovo libro "Piccoli incontri con grandi architetti" edito da Skira, con un unico obiettivo: far uscire dal guscio questo mondo affascinante e farlo conoscere e amare al grande pubblico.

Da dove nasce l'idea di scrivere questo libro?
Spinto dai pressanti suggerimenti di lettori e di persone vicine al mondo delle politiche urbane, dell’architettura e dell’arte, ho deciso raccogliere in un libro una parte del mio lavoro edito sull’Espresso negli ultimi 10-12 anni e una parte di lavoro inedito che ho costruito apposta per la pubblicazione. Mi definisco un intruso perché di solito i libri sull’architettura li scrivono gli architetti, esiste poca saggistica su questo tema scritta da chi non fa parte della categoria. Il mio obiettivo è proporre il punto di vista di un giornalista competente e appassionato, che però non fa parte della “corporazione”. Non è stato facilissimo entrare in questo mondo ma alla fine sono riuscito a farmi accettare e nel corso degli anni gli architetti mi hanno raccontato davvero tante cose interessanti.

Cosa ti ha portato a entrare in questo mondo?
Intorno al 2000, in ritardo di una decina d’anni rispetto all’Europa, l’architettura italiana ha iniziato a uscire dall’informazione specialistica. Le aperture di cultura dei grandi giornali europei erano dedicate alla trasformazione di Amburgo, ai nuovi quartieri di Berlino, ai grandi progetti di grattacieli e musei che hanno ridisegnato le sponde del Tamigi a Londra. In Italia invece l’informazione era relegata alla critica di architettura da parte di specialisti. Mancava, fino a 10 anni fa, un vero giornalismo in grado di offrire la cronaca degli eventi trasformativi della città, del nostro modo di usarla, dell’attività di architetti che incidono sugli spazi urbani e sulla nostra vita quotidiana. Gli architetti erano personaggi interessanti solo per gli addetti ai lavori. Insieme a pochi altri giornalisti, saremo una decina in tutto in Italia, sono riuscito a portare questa cronaca nei giornali generalisti, dando il mio contributo affinché l’architettura non sia solo un tema riservato a elite di professori che recensiscono opere di architetti, o di architetti che si parlano addosso in maniera narcisistica. Un contributo importante in questo lo ha fornito la concorrenza fra le città in una chiave di turismo culturale, che ha portato alla realizzazione di nuovi spazi pubblici, grandi musei, auditorium, centri espositivi, che ha coinvolto tutti i più grandi architetti internazionali. In questo modo l’architettura è diventata più popolare. Un esempio emblematico è lo stadio di calcio delle Olimpiadi di Pechino 2008, il famoso nido d’uccello: oggi anche una persona di media cultura che ha visto le Olimpiadi lo conosce, e lo riconosce come una grande icona contemporanea.

Hai notato nel tempo un’evoluzione della tendenza a creare grandi icone urbane?
L’ultimo è stato il decennio della costruzione delle grandi icone. Nei prossimi anni ci si interrogherà su qualità e limiti di questo tipo di sviluppo. Non ci si può limitare a fare un'architettura di grandi oggetti mediatici, l’architettura deve essere anche la trasformazione della città nelle sue piccole parti, nella nostra vita di tutti i giorni, nelle scuole, nelle caserme dei vigili del fuoco, nei parchi pubblici. Immaginiamo per esempio una nuova residenza nelle periferie per le giovani coppie che non possono permettersi di abitare nei centri storici troppo cari per loro. In questo campo ci sono Paesi molto avanti rispetto a noi. Se per esempio sei in Olanda e guardi fuori del finestrino di un treno o di un’automobile, vedi che il paesaggio urbano è privo di mediocrità, abbandono e degrado. Immagine opposta alla distruzione urbana che invece si vede nelle drammatiche periferie di Napoli o Palermo, o nei centri storici abbandonati. In Olanda c’è una cultura generale delle amministrazioni locali tali per cui il paesaggio costruito fuori delle città e quello dentro, cioè il paesaggio urbano ed extraurbano, ha una dignità di fondo che rispecchia la dignità dell’uomo nell’abitare in prossimità dei luoghi della scuola e del lavoro. Non si tratta solo di grande architettura ma anche di piccola architettura per chiunque, dai bambini agli anziani. In Italia c’è un deficit culturale presso le amministrazioni locali e centrali, che fanno fatica a riconoscere all’architettura contemporanea il valore che merita come strumento di miglioramento delle città.

E’ possibile che accada il contrario, cioè che le opere degli architetti portino a un cambiamento delle scelte urbanistiche?
In alcuni casi, anche nel nostro Paese, un’opera architettonica importante e di vera qualità ha portato a trasformazioni notevoli. L’esempio più indicativo è quello del progetto realizzato dallo Studio Piano del porto antico di Genova. Un progetto che ha permesso alla città di riaprirsi al mare e di riposizionarsi sulla mappa turistica internazionale. Lo stesso dicasi per le infrastrutture nate a Torino per le Olimpiadi del 2006 come il villaggio olimpico, la prima linea del metrò, il restauro dei palazzi del centro storico e dei grandi viali torinesi, l’operazione Mole Antonelliana

Il recupero dei centri storici è fondamentale anche in chiave turistica…
Assolutamente sì. Se c’è un Paese in Europa che da 800 anni può vantare un network di centri storici in cui la storia parla attraverso le pietre e l’identità della nazione si declina nelle forme più affascinanti e più diversificate, questo è senza dubbio l’Italia. Il nostro è il Paese delle cento città, possiede un federalismo naturale. Noi abbiamo da Trento a Ferrara fino a Lecce tante città di dimensioni medio-piccole di grandissima qualità, dotati di centri storici che rappresentano un magnifico passaporto turistico nel mondo.

Ci sono differenze tra architetti italiani e architetti stranieri? E c’è un architetto su tutti a cui sei più legato?
Negli ultimi 10 anni l’Italia dell’architettura è ritornata nella mappa dell’architettura internazionale, grazie a progetti in numerose città. Abbiamo già parlato di Torino e Genova, Milano oggi è in forte trasformazione e si possono fare numerosi esempi in realtà minori come Trento e Salerno. Se prima si tendeva ad affidarsi a progettisti stranieri, appartenenti al cosiddetto star system dell’architettura, ora gli architetti italiani della mediana e nuova generazione hanno più chance di farsi apprezzare. E’ giunto il momento chei nostri architetti si scrollino di dosso i complessi e ritornino a parlare con un linguaggio proprio nel concerto del dibattito contemporaneo. Fra questi c’è Renzo Piano, l’architetto cui ho dato maggior spazio in questo libro, uno spazio forse sproporzionato. Ma se c’è un architetto che in questi anni è stato generoso nel raccontare il suo lavoro, nell’aprirsi come persona e permettere a un giornalista come me di conoscerlo fino in fondo, è senza dubbio lui. Lo stimo molto per la sua complessità, per la capacità di coniugare cultura umanistica, cultura artistica e cultura tecnologica, e per la sua idea di città ecosostenibile, profondamente colta e contemporanea. Renzo Piano è un italiano di cui l’Italia può andare fiera.

Leggi la scheda del libro sul sito di Skira

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