05 maggio 2016
"Di fatto il paesaggio e il patrimonio storico e artistico sono normalmente in pericolo e in particolare da quando l'Italia è, vivaddio, divenuta una democrazia di massa con un diffuso benessere. In questa nuova condizione occorrerebbe una radicale revisione dell'ordinamento giuridico e amministrativo e delle tecniche d'intervento, sostituendo alla tutela passiva e alla concezione proprietaria, posizionale ed estetizzante dei beni culturali, una nozione di valore pubblico per cui la tutela consegua all'implementazione della loro funzione sociale. I provvedimenti del ministro Franceschini non servono a questo, ma non si può certo imputare ad essi di peggiorare la situazione. Anzi, limitatamente alla ristretta sfera ministeriale, indubbiamente la migliorano.
Ma la contestazione, dichiaratamente dovuta alla nostalgia «dellesoprintendenze come le avevamo conosciute», non si attenua neppure di fronte all'incremento delle risorse per il settore e alle cinquecento nuove assunzioni. Talmente è accesa, da contrabbandare la valorizzazione per mercificazione, fingendo di non comprendere che valorizzare i beni culturali significa promuovere e soddisfare al meglio la richiesta di vederli e di comprenderne il valore intero e che ciò comporta da principio che gli oggetti e i luoghi siano tenuti in buone condizioni e che, quindi, siano resi fisicamente e intellettualmente accessibili: fisicamente, gestendo gli appositi istituti e servizi in modo efficace, efficiente ed economico (purché inefficacia, inefficienza e spreco non siano valori culturali irrinunciabili) e magari rendendone piacevole la frequentazione; intellettualmente, sviluppando intanto le attività di studio utili a riconoscere il valore insito nei beni, per poi comunicarlo in modo da tutti comprensibile ovvero, a ben vedere, sviluppando un buon marketing relazionale, che, in ambito pubblico, non è viziato da esosità. Né viene inficiata la sacralità della cultura, se da ciò inevitabilmente derivano benefici materialmente economici di varia specie e finanche commerciale.
Un'importante funzione, certo non esaustiva, spetta per questo ai musei. La nomina dei nuovi direttori dei maggiori istituti è un fatto in sé positivo e non ultimo per aver scelto non solo italiani e ministeriali. È un sasso nello stagno della nostra consolidata tradizione, incline a credere che, come affermato da riconosciuti maestri, «le ore più strettamente museali sono quando il Museo è serrato, sottratto alla "consumazione" e tra le raccolte regnano, più solenni, l'immobilità e il silenzio», perché, «sebbene si proclami oggi che un elemento costitutivo fondamentale del Museo è anche il suo pubblico, l'idea di Museo sembra poter sussistere sufficientemente anche senza tale elemento.
Non mancano, in Italia almeno, musei chiusi a tempo indeterminato, né per questo essi cessano di essere tali». Che i contrari a questa innovazione adducano di volere per contro che «i musei siano fabbriche di sapere» è un'altra mistificazione, quasi che i nostri musei non stiano come stanno, chiusi in sé, noncuranti delle esigenze degli utenti e della produttività della spesa. Difficile scommettere su ciò che avverrà davvero, se una maggiore affluenza di visitatori sarà ottenuta grazie a epidermiche forme di intrattenimento, anziché superando le «solite chiacchiere sull'arte» insopportabili non solo per Thomas Bernhard. Ma, comunque vada, un direttore di museo non potrà più vantarsi di essere uno studioso aristocraticamente incurante del pubblico e ignaro di questioni gestionali.
Il problema, piuttosto, è che i soli istituti statali non bastano a valorizzare il "museo diffuso" e non è da credere che gli enti territoriali possano essere sostituiti dal ministero per assicurare il buon funzionamento della fitta rete dei musei locali, sulla quale soltanto può essere incardinata la valorizzazione della generalità del paese.
Né si può prescindere dagli enti territoriali per un'opera di tutela coniugata con lo sviluppo economico e sociale. L'unificazione delle soprintendenze non otterrà per se stessa questo effetto. Nel suo piccolo, tuttavia, e nonostante l'anacronistica definizione di "belle arti", rimedia alla ottocentesca scomposizione metodologico-disciplinare del carattere unitario del patrimonio e semplifica il rapporto fra istituzioni e cittadini. Del resto la qualità dell'azione delle soprintendenze non è tanto questione di organizzazione, ma di adeguata e omogenea formazione degli addetti, anche per evitare, come finora, che la tutela venga diversamente interpretata di luogo in luogo a gusto di ciascun soprintendente.
Ma suscita enorme timore in alcuni la confluenza nell'ufficio territoriale dello Stato finanche delle soprintendenze al pari di tutti gli altri uffici periferici. Dimenticandone le funzioni di rappresentanza del governo e di raccordo tra le istituzioni pubbliche e le varie componenti sociali, si pensa, chissà perché, che il prefetto stia lì per annichilire il collega soprintendente e che il parere del soprintendente sia comunque giusto e insindacabile. Ma l'attendibilità delle critiche è dissipata dalla grottesca idea di democrazia che le ispira, quando si afferma che i soprintendenti dovrebbero agire non come funzionari pubblici, ma come "contropotere al potere politico" e che i cittadini dovrebbero autogovernarsi, tranne che, ovviamente, sottomettersi ai soprintendenti.
*Professore di Economia e gestione dell'eredità culturale all'Università di Macerata, direttore della rivista «Il capitale culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage». Ha curato Economia e gestione dell'eredità culturale. Dizionario metodico essenziale appena edito dalla Cedam.
nei Beni FAI tutto l'anno
Gratis