21 marzo 2021
Mettere nero su bianco fatti e accadimenti vissuti nell’arco di qualche decennio è spesso utile per riuscire a estrarre da ciò che si è fatto e vissuto i princìpi stessi di ciò che si sta esaminando: per me in questo momento il rapporto tra l’attività del FAI in questi ultimi 35 anni e il concetto di Ambiente.
Dal 1986 - eravamo in cinque impiegati con appena tre o quattro Beni da restaurare e gestire – ho percorso assieme al FAI una strada iniziata in un’Italia (anzi in un mondo) profondamente diversa da quella di oggi; la vera criticità per una Fondazione nata allo scopo di tutelare il Patrimonio storico e naturalistico del Paese (in una parola, come abbiamo stamattina sentito dal Presidente Carandini, l’Ambiente in cui viviamo) era rappresentata dal progressivo stato di abbandono di un numero crescente di monumenti e dalla continua rapina del paesaggio italiano; la prima emergenza è oggi assai meno drammatica ma per la seconda lo stato di allarme non è calato! Ancora negli anni Ottanta la coscienza della centralità della Storia, dell’Arte e del Paesaggio per la stessa identità del Paese era patrimonio di pochi e la battaglia del FAI appariva donchisciottesca; al punto che nel propormi nel 1985 di entrare nel FAI, Giulia Maria Crespi mi disse con quel suo spirito contradditorio e provocatorio: “Perché non vieni a lavorare con me e Renato per dare un futuro al mio figlio abortito?” Giuro che è vero! La scommessa mi parve oltremodo sfidante e accettai.
In quel momento, dicevo, il tema più evidente era soprattutto quello del futuro di quello sterminato patrimonio artistico e monumentale che, al di fuori dei grandi monumenti tutelati da Stato, Chiesa e pochi privati non aveva di fronte a sé un futuro, vuoi per la crescente difficoltà di essere tutelato e gestito da chi lo deteneva (vecchie famiglie dai redditi in picchiata o piccoli comuni senza capacità ne risorse), vuoi - e soprattutto - per la mancanza della percezione comune e diffusa che questo potesse essere un problema comune; il distacco tra la maggioranza della popolazione e questa realtà dei fatti era ancora enorme. Per non parlare poi dei temi oggi all’apice della cronaca e di cui poco o nulla si sapeva e leggeva se non in ambiti ancora più ristretti e dai più (tra i quali noi trentenni di allora) considerati vaneggiamenti da Cassandre: riscaldamento climatico, buco nell’ozono, microplastiche nei mari, ghiacciai che scompaiono, biodiversità messa a rischio dai pesticidi e dal monopolio delle sementi modificate, permafrost che si scongela… temi che - nonostante il WWF fosse già attivo dal 1966 e Legambiente fosse nata nel 1980 – erano ancora più lontani dalle coscienze dei più di quello della perdita di monumenti e paesaggi che era invece al centro della energica attività di Italia Nostra, nella quale militavano ancora Crespi e Bazzoni e dove io mossi i primi passi alla fine degli anni Settanta.
Sin dai suoi inizi il progetto del FAI fu quello di occuparsi sia di Natura che di Storia ed è per questo che assieme al monastero romano-longobardo di Torba i primi vagiti della neonata Fondazione provennero anche dalla oasi faunistica di Casalbeltrame in provincia di Novara che per qualche anno vide la tenacia di Bazzoni impegnata per la sua valorizzazione e apertura al pubblico; Fulco Pratesi, amico della Crespi, disegnò da par suo volatili di ogni tipo per raccontarne la meraviglia, ma il progetto, questo sì, abortì. Ci fu poi un tentativo di Bazzoni di occuparsi dell’oasi del delta del Po alla foce del ramo del Volano, ma, mentre Emanuela Castelbarco donava al FAI il Castello di Avio, i tempi non erano maturi nemmeno per questa avventura naturalistica; questo per dire che Giulia Maria e Renato avevano ben in mente che l’Ambiente di cui ci si doveva occupare era un inedito mosaico composto da opere della Natura e da opere dell’uomo; era a loro ben chiara la missione di occuparsi di un contesto complesso, diversificato, multiforme e solo apparentemente disomogeneo in quanto composto da addendi che la percezione comune del tempo - così come in fondo anche quella attuale seppur in forma e misura diverse - non riconosceva come appartenenti alla medesima addizione. Illustrando il secondo Convegno Nazionale del FAI tenutosi a Verona nell’ottobre 1987 dal titolo assai chiaro Anche l’Ambiente è monumento Bazzoni scriveva:
«Nel nostro Paese ogni pietra e ogni albero concorrono a creare un ambiente che del monumento vero e proprio è felice complemento. Infatti antichi castelli, ville, monasteri, chiese e ambienti son frutto della felice unione di uomo e natura».
E ancora:
«La legge del ’39 sanciva come degni di tutela solo i monumenti e ignorava quanto attorno era entrato a far parte della loro lunga vita, tanto che a molti monumenti conservati grazie alla applicazione della legge corrispondono ambienti trascurati o deturpati o distrutti».
I fondatori del FAI davano già dunque negli anni Ottanta alla parola Ambiente quel significato di contesto dove in una Natura adattata con millenni di lavoro alle sue esigenze visse e vive l’Uomo, che vi ha costruito le sue case, le sue attività e dunque la sua Storia. Guardando alle azioni del giovane FAI con gli occhi di oggi, però, sembra che al momento non si fosse realizzato fino in fondo che ogni “pezzo” di paesaggio italiano ha in sé quelle caratteristiche sia naturali che storiche per essere considerato “ambientale”; in quei primi passi la giovane Fondazione cercò infatti una completezza di azione e, in un certo senso, la composizione delle due distinte anime storica e naturale nella unione di progetti apparentemente solo storico/monumentali e di altri solo naturalistici; da qui forse la necessità di “compensare” i progetti di recupero di Torba e Avio andando alla ricerca di quegli ormai rari scampoli sopravvissuti di paesaggio naturale come un pezzo di foce del delta del Po o una zona umida regno delle anatre selvatiche ove l’uomo difficilmente può avere un ruolo, se non quello di rimanerne fuori. E difatti i due tentativi di Casalbeltrame e di Volano non ebbero successo per il FAI; il WWF era invece nato proprio per le oasi con una esperienza e una missione che richiedevano competenze diverse da quelle dell’architetto Bazzoni e della signora Crespi che, infatti, aveva deciso di donare al neonato FAI un monastero, abbandonando la prima idea di creare un bosco.
L’Ambiente sul quale si decise di intervenire, per migliorarlo e impedirne il progressivo avvilimento se non la distruzione, fu dunque proprio quello offeso dall’abbandono con l’intento di passare a quello deturpato da opere dell’uomo che ne avevano fisicamente stravolto le caratteristiche storiche e paesaggistiche o che l’uomo, nella sua inconsapevolezza, avrebbe presto potuto stravolgere; e difatti proprio davanti al Monastero di Torba venne acquistata una striscia di terreno per creare un piccolo bosco di querce al fine di celare, nel limite del possibile, una vecchia fabbrica in disfacimento che comprometteva l’armonia generale dell’ambiente campestre del monastero. Ma due casi sono, a questo riguardo, emblematici delle grandi opportunità che ha avuto il FAI di intervenire, tra le tante, sull’Ambiente Italiano: uno in trentino evitando uno stupro micidiale alla bassa Val Lagarina dominata dal Castello di Avio; l’altro nel grandioso anfiteatro morenico della Serra di Ivrea dominato dal Castello di Masino. Nel primo caso - siamo nel 1997 - fu sventata la costruzione di un immenso ponte che, superando Adige, ferrovia e autostrada (immaginatevi la dimensione! Non troppo diversa da quella del ponte di Brooklyn) avrebbe dovuto congiungere nel progetto di una amministrazione affetta da una delirante grandeur, le due piccole frazioni di Vo sinistro e Vo destro in comune di Avio distruggendo il paesaggio e l’ambiente delicato dei vigneti storici trentini; il FAI fece, come si divertiva a dire Giulia Maria, un “casino della miseria”; coinvolgemmo Veltroni, Vicepresidente del Consiglio e Ministro dei Beni Culturali intervenuto al nostro Convegno Nazionale sul “Bello” tenutosi a San Martino al Cimino (come fummo presi in giro allora per aver deciso di occuparci del “bello”… ci dissero che parlavamo di ciliegine sulla torta, per poi parlarne tutti dopo poco), e poi per fortuna cambiò l’amministrazione provinciale e il progetto, sebbene finanziato, non venne attuato. Nel secondo caso l’intatta piana glaciale scandita dalla imponente linea retta della Serra di Ivrea avrebbe dovuto essere sventrata da un centro commerciale di 60 ettari travestito da Parco Mediatico (Mediapolis avrebbe dovuto chiamarsi); la guerra, forse la più appassionata e senza esclusione di colpi tra quelle combattute da Giulia Maria, richiese dieci anni per evitare che un ambiente storico e naturalistico di questa rarità e delicatezza venisse distrutto per sempre; fu una grande vittoria. Dai fulcri storici dei nostri castelli di Avio e Masino l’azione ambientale del FAI si era irradiata a un assai più ampio contesto unendo in un futuro degno del nostro Paese i bei paesi canavesani, i loro monumenti e il grandioso paesaggio che li contiene; il tutto mentre alle spalle del Castello di Avio era già stata fermata da Bazzoni la trasformazione di una strada boschiva in strada aperta al transito e dunque foriera di nuovi insediamenti abitativi mentre ai piedi del maniero il FAI aveva restaurato vigne e oliveti; cosi come nella ampia conca tra il castello di Masino e il sottostante abitato di Vestignè, in un paesaggio intatto solcato dalla Dora e aguzzato, la in fondo, dal Monviso, venivano pochi anni fa ricostruiti gli antichi vigneti che l’abbandono aveva dato in pasto a un bosco spontaneo che aveva cancellato l’opera di tante generazioni di viticultori. Ovunque, in questi ultimi due decenni di attività del FAI, interventi di recupero di ambienti agricoli storici riportati alla produzione compresi due grandi alpeggi di alta quota di oltre cento ettari ognuno: uno a Talamone in Valtellina con il caricamento la scorsa estate delle tradizionali e quasi del tutto sparite in Italia Brune Alpine Original Brown e l’altro nei monti del Grappa dove, dopo il restauro delle antiche malghe, torneranno a pascolare tra le trincee della Grande Guerra le rare e autoctone vacche Burline delle quali il Duce aveva decretato l’estinzione; e poi il recupero di ettari di oliveti abbandonati e di boschi degradati da Assisi alla Baia di Ieranto, da San Fruttuoso fino al difficilissimo e da poco terminato progetto di Case Lovara a Punta Mesco, una piccola eroica azienda agricola abbandonata tra Levanto e Monterosso nelle Cinque Terre: un vero fiore all’occhiello del nostro “catalogo” di ambienti italiani salvati per sempre e per tutti e che ha ricevuto una menzione al Premio Paesaggio 2021. Metri di muretti a secco riportati alla luce dalla macchia che se li era mangiati e restaurati per sostenere di nuovo orti, uliveti e vigne a fianco di due case coloniche, una del XVIII secolo e una del XX dove vissero, oggi come allora a un’ora a piedi dal primo centro abitato, eroiche generazioni di contadini italiani le cui gesta racconteremo al visitatore-camminatore che qui troverà un ambiente agricolo storico tradizionale da vivere e studiare in quanto reso sostenibile da interventi di assoluta avanguardia in tema di sostenibilità energetica e idrica.
Ma allora se PER questi ambienti tanto è stato già fatto, non vi è più nulla da migliorare o aggiungere nelle attività del FAI per garantire all’ambiente italiano un futuro che consenta agli uomini di oggi e dei secoli che verranno di vivere in armonia col mondo che li ospita? Intervenendo al più presto perché le opere dell’uomo non solo non deturpino l’ambiente circostante le nostre vite quotidiane ma che soprattutto contribuiscano a vincere la madre di tutte le battaglie e cioè quel riscaldamento climatico con tutte le rovinose conseguenze proprio sugli ambienti nei quali si svolge la nostra vita?
Ci siamo resi conto di avere un enorme, in parte nuovo, lavoro da fare in questo senso; dobbiamo essere, come ha già detto Daniela Bruno, più espliciti e multidisciplinari nel raccontare a chi ci segue la storia, le componenti e le fragilità dell’ambiente in cui viviamo; in questi primi quasi 50 anni abbiamo, dopo complessi restauri, raccontato storie di uomini e donne che hanno dato forma e vita ai nostri Beni: storie di architetti, di artisti, di artigiani, di contadini, di giardinieri, di monaci, di aristocratici, di esploratori e collezionisti, di poeti come Leopardi e di eroine risorgimentali come Cristina di Belgiojoso, perché uomini e donne di oggi abbiano la consapevolezza di essere eredi di una storia di tanta varietà e qualità e possano ad essa ispirarsi per indirizzare le loro azioni. Ma non ci siamo curati, inconsapevoli di un bisogno forse ancora più urgente, di rialfabetizzare il nostro pubblico anche su tutto ciò che riguarda la cultura della natura; al visitatore cha arriva al Castello di Masino raccontiamo tutto dei Valperga di Masino da re Arduino all’ultimo discendente ma nulla, da quel balcone privilegiato sul paesaggio, di quella millenaria storia delle glaciazioni successive che hanno formato l’ambiente canavesano dominato dalla immensa morena della Serra; raccontiamo del grande giardiniere Du Parc che nel Settecento disegnò il parco del castello ma nulla diciamo - nonostante li curiamo come pupille dei nostri occhi – dei corbezzoli centenari che all’ombra delle Alpi prosperano meglio che nei loro ambienti tradizionali sardi o toscani grazie al microclima raro e speciale di Masino; ma cosa è un micro clima? Cosa raccontiamo ai nostri visitatori di botanica (quanti riconoscono la foglia di un castagno da quella di una quercia?), di geologia (la Serra!) di climatologia (le plurime discese e ritirate dei ghiacciai che quel paesaggio hanno forgiato)? Stupiamo i nostri visitatori all’Abbazia di Cerrate nei pressi di Lecce con le storie dei Santi africani e orientali che popolano le pareti della duecentesca chiesa ma non li lasciamo a bocca aperta e cuore infranto raccontando loro della infinità di coltivazioni di olivo che caratterizzavano quel paesaggio e che la xylella (cos’è ? una mosca, un virus, un fungo?) si è portata via in pochi anni o, per scendere in Sicilia che le varietà del mandorlo in quell’isola prodigiosa non sono dieci o venti ma duecentocinquanta! Al Monastero di Torba (e finisco) oltre agli affreschi dell’VIII secolo riportati in vita dalla grande e rimpianta amica Pinin Brambilla - alla quale va il nostro devoto ricordo – abbiamo ora restaurato le rondonaie (che differenza c’è a proposito tra un rondone e una rondine?) che coronano la torre romano-longobarda; perché? che funzione hanno le rondini (che tanto stanno soffrendo progressivamente riducendosi) nel grande teatro dell’ambiente italiano e in particolare in quel pezzo nelle nostre mani dal 1978 e nel quale tutto abbiamo raccontato dell’ambiente affrescato dove le monache pregavano, ma mai nulla delle rondini italiane?
Domani è primavera; il futuro del pianeta dipende anche dalla salute delle rondini che all’ambiente di Torba danno vita con il loro garrire. Fino a un po’ di tempo fa non ci avevamo pensato.
Ora sì. Monache e rondini; Storia e Natura; per una tutela, una valorizzazione e un racconto completo dell’Ambiente Italiano.
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