08 giugno 2016
Credo di non esagerare osservando, che il dibattito in corso da due anni sul patrimonio culturale valga almeno venti degli anni trascorsi, se pensiamo all'apatia che accompagnò, dodici anni fa, la nascita del Codice Urbani a conclusione di un periodo che aveva pur visto, con i decreti Veltroni di fine millennio, qualche barlume di innovazione almeno sul fronte della valorizzazione dei beni culturali.La temperie attuale è certo merito del dinamismo di un ministro che – a volte senza guardare in faccia nessuno - ha mosso le acque dello stagno e merito di una pubblicistica che ha visto impegnati alcuni addetti ai lavori, scatenando reazioni più o meno composte, che ci hanno almeno fatto prendere atto che la stagione del pensiero unico, e del timore manifestato da tanti media nel toccare temi apparentemente di esclusivo dominio di una casta, è finita. Anche se stiamo in mezzo al guado: condizione scomoda, ma vitale e, foss'anche solo per questo, liberatoria.La riforma dei poli museali e quella che ha istituito le soprintendenze uniche sono state due spallate, che hanno demolito da un lato d'un colpo – per dirla con Roberto Cecchi - il moloch che per decenni ha bloccato ogni iniziativa perché si considerava inseparabile il ruolo della tutela dalla fruizione; e dall'altro la falsa coscienza di una tutela contestuale affermata negli intenti e negata nell'organizzazione amministrativa.Queste due riforme hanno preso le mosse dall'assunto che a un certo punto deve pur arrivare il momento in cui non si può più continuare a fare quello che si è sempre fatto. E questo semplicemente perché – per dirla con Massimo Montella - il patrimonio culturale non possiede un valore dato a priori: il suo significato è tale finché è percepito come valore culturale.Non voglio peccare di ottimismo, ma un' aria nuova dunque circola perché sembrano essersi mossi all'unisono alcuni pezzi delle istituzioni e alcuni settori dell'opinione pubblica, almeno quelli stufi di rimanere schiacciati tra le sciatterie del 'tira a campare' e le nobili nostalgie del Grand Tour. Perplessità, incomprensioni, debolezze di tutti gli attori in campo non mancano e non mancheranno. E occorre saper ascoltare le voci discordi, distinguendo quelle dettate dalla paura del nuovo da quelle desiderose di contribuire comunque ad una innovazione, che non è mai buona in sé, ma la cui qualità si misura sempre con l'esistente.
Assistiamo spesso a prese di posizioni che allargano il solco piuttosto che ricucirlo. Il che può essere un bene, se impedisce pasticci concettuali e false unanimità, ma paralizzante se si cristallizza in due sfere non comunicanti.Lasciatemi anche dire che – sarà forse un inguaribile modo di vedere le cose da archeologo – l'approccio alla filiera ricerca/tutela/valorizzazione/gestione del patrimonio culturale passa anche da una presa di coscienza storica, che ci invita a mettere a fuoco i problemi del presente alla luce di quel che è successo nei cento anni che ci separano dalle prime leggi di tutela dello stato unitario; ma sapendo di vivere in un mondo che corre con la velocità di una cometa, nei rapporti di forza internazionali, nell'incontro/scontro fra culture, nel fluttuare delle ricchezze dall'una all'altra parte del globo, nell'impero della comunicazione globale che ci fa vivere la vita degli altri in tempo reale. Sono tutti fenomeni che si riflettono potentemente in quel meccanismo che regola il flusso delle informazioni e anche il turismo di massa globalizzato, da cui ci sentiamo come soffocati e del quale non possiamo e non vogliamo fare a meno, mentre vorremmo ancora provare a godere del nostro incomparabile patrimonio anche semplicemente come cittadini. La prima riforma Franceschini ha innovato moltissimo, imponendo la pari dignità della valorizzazione, cioè del comma 1 dell'art. 9 della Costituzione che parla di diffusione della cultura, rispetto al comma 2, che parla di tutela, la quale da sola non sta in piedi.La seconda riforma, con l'istituzione delle Soprintendenze Uniche, ha segnato un passo importante verso una tutela di carattere contestuale, che non separa nell'amministrazione quel che è intimamente legato nel territorio. Per chi lo chiedeva da venti anni la soddisfazione è grande, perché si creano le condizioni per un approccio globale al patrimonio culturale e per una visione multidisciplinare, che non depotenzia gli specialismi, ma li fa dialogare (da archeologo, penso che ad un problema archeologico non corrisponda mai una soluzione esclusivamente archeologica). Con Soprintendenze Uniche ben organizzate in sette aree funzionali avremo forse strategie di intervento pubblico più omogenee e coordinate, e i cittadini risposte meno divergenti e in tempi possibilmente meno eterni. Tuttavia le criticità non mancano, poiché questa seconda riforma interviene sul corpo stanco e malato delle nostre Soprintendenze, reso tale da decenni di una dissennata politica verticistica, che ha fatto del Mibact uno dei ministeri più gerarchici e inefficienti.
La cura, innanzitutto culturale e poi organizzativa, non può che essere radicale, ma temo che rischi di non avere fiato e gambe, se non sarà accompagnata da una maggiore condivisione dei processi decisionali all'interno degli uffici, che valorizzi le competenze e la transdiciplinarità, da una loro autonomia finanziaria e di gestione del personale, da una fisiologica valutazione di comportamenti e risultati, da una democratizzazione delle filiere procedurali che non appanni le assunzioni di responsabilità.Sul versante politico generale una serie di provvedimenti hanno suscitato perplessità e allarmismi (norme sul silenzio-assenso, ruolo dei prefetti nella nuova legge Madia, forme di gestione delle conferenze di servizio). Su questo è bene incalzare ministro e parlamento mettendo la politica di fronte alla sue responsabilità, ma facendosi carico anche del dovere della Pubblica Amministrazione di provare a dare finalmente risposte univoche e rapide agli enti locali, ai cittadini, alle imprese, come sarebbe normale in un moderno Stato democratico. E questo vale tanto sul piano della tutela quanto su quello della valorizzazione. Sin dal 2005 la Convenzione di Faro del Consiglio d'Europa sul valore dell'eredità culturale per la società, ha innovato profondamente l'approccio al patrimonio traghettandoci dal "diritto del patrimonio culturale" al "diritto al patrimonio culturale" e mettendo le persone al centro del processo. Ci abbiamo messo otto anni per siglarla: è giunta l'ora che l'Italia la ratifichi, senza poi stravolgerla, come certe circolari del Mibact a proposito dell'organizzazione degli scavi archeologici hanno fatto con il dettato della Convenzione della Valletta. E ratificare la Convenzione di Faro metterà il Mibact e la sua guida politica in condizione di rivedere profondamente l'impostazione stessa del Codice Urbani.Più problematico è lo spezzettamento provinciale delle nuove soprintendenze. Le critiche mettono in evidenza le difficoltà logistiche per la gestione degli inventari e degli archivi, dei depositi e dei laboratori: tutte questioni assai concrete, ma risolvibili con la volontà politica e con l'innovazione tecnologica. La loro risoluzione – che non può essere a costo zero - potrà diventare il discrimine tra il buon esito della riforma e il suo eventuale fallimento. Personalmente, ritengo che una organizzazione su base regionale sia preferibile perché solo a quella scala sarebbero presenti tutte le competenze disciplinari, che con l'attuale carenza di personale potrebbero mancare a scala provinciale. Per non parlare delle opportunità di scambio umano e professionale allargato e generazionale che verrebbero garantite da una struttura unica, e delle possibili economia di scala. Una organizzazione a livello regionale si concilia meglio con l'esigenza di produrre pareri rapidamente, e si adatta meglio al confronto con le competenze urbanistiche delle Regioni (i Piani Paesaggistici Regionali ne saranno il banco di prova, dove si vedrà quanto la visione della tutela contestuale potrà incidere e fare da guida).
Dopo anni di una situazione di cui ci siamo sempre lamentati, idee e progetti nuovi sono necessari per salvaguardare il meglio della nostra tradizione e garantirle un futuro: per questo occorre mettersi in gioco. Tante cose sono cambiate in questo secolo abbondante, ma non la difficoltà che noi addetti ai lavori, e di conseguenza la politica, ancora proviamo nel misurarci con la finalità sociale delle nostre competenze specialistiche. Evitando le lamentele catastrofistiche e insieme auto assolutorie, dobbiamo imparare a riflettere di più sulle nostre responsabilità di interfacce pensanti tra un patrimonio sconfinato e una platea umana globalizzata, nelle cui mani è il suo destino.Il nostro sistema di tutela ha funzionato fino a quando il suo orizzonte è rimasto limitato a un numero circoscritto di beni in un'Italia ancora largamente agricola e pastorale e semialfabetizzata, e fino a quando gli utenti del sistema sono stati prevalentemente ristretti ad una fascia sociale che era già educata alla loro comprensione, sì che l'assioma consolatorio tutela=valorizzazione poteva sembrare difendibile. Con lo sviluppo industriale e la crescita culturale e partecipativa l'amministrazione ha preso a sbandare perché i suoi compiti si sono ampliati senza un parallelo sviluppo della struttura organizzativa. Il sistema non ha seguito l'evolversi della nozione di patrimonio culturale e non è mai stato organizzato per dare centralità alla sua valorizzazione. In poche parole, anche in questo settore decisivo per il nostro Paese abbiamo assistito ad un mancato aggiornamento delle categorie interpretative della realtà di fronte al salto di scala planetario della contemporaneità.Oggi il concetto di patrimonio evoca una dimensione valoriale, che investe qualità che vanno ben al di là della percezione estetica e monumentale di derivazione idealistica. Sì che mai come nel presente abbiamo la consapevolezza che le politiche pubbliche debbano orientare l'azione di tutela su un patrimonio diffuso ponendo al centro dell'attenzione la qualità del territorio, ed investendo su di essa, che si tratti del rapporto pubblico/privato nella progettualità e nella valorizzazione come della messa in campo di progetti di manutenzione preventiva programmata strategici per la salvaguardia del patrimonio e per l'occupazione.Il rapporto tutela/valorizzazione è uno dei nodi del contendere. Ricerca, tutela, valorizzazione e gestione appartengono certo alla stessa filiera, sono tra loro intimamente incastrate, ma non sono la stessa cosa. E' questa insulsa storiella che ci ha fatto nascondere la testa nella sabbia, annegati in un pensiero confermativo, che cerca conforto nei mantra invece che nell'etica del fare. Perché la ricerca ci fa capire il senso delle cose; la tutela ci dice come proteggerle; la valorizzazione ci dice come conservarne il senso diffondendone la percezione; la gestione ci dice come continuare a poterlo fare. Quindi ricerca/tutela/valorizzazione e gestione sono quattro cose diverse, che si danno la mano, e il loro concatenamento dovrebbe essere al centro anche della formazione universitaria, come purtroppo non è. Veramente ha ragione Montella quando osserva che, per come se ne tratta sui mezzi di informazione, la valorizzazione dei beni culturali sembra consistere in una disputa surreale fra chi vuole e chi rifiuta eventi e spettacoli all'interno di monumenti e musei. Valorizzare vuol dire promuovere e soddisfare al meglio la richiesta di usare i luoghi del patrimonio culturale e di comprenderne il valore. Si tratta semplicemente di questo. Che poi tanto semplice non è, perché questo comporta che si sappia comunicare il loro senso storico ed estetico, ragionando su linguaggio e strumenti, e anche, scusate se è poco, che oggetti e luoghi siano tenuti in buone condizioni. Perché si può certamente passare un'ora in un museo o in un sito a contemplare le opere, fermando il tempo, ma anche mezza giornata in letizia con familiari o amici, e aver voglia di ritornarci, come in tempi non sospetti ci insegnava già Renato Bazzoni.
Ragionare sul senso della valorizzazione significa anche ragionare sui casi positivi che ne documentano la praticabilità e gli effetti: piccoli esempi dal basso o grandi esempi organizzativi, sostenuti da un pensiero forte e limpido. L'esperienza del FAI ci insegna che la gestione diretta dei beni può produrre ricchezza pulita e garantire anche gestioni sostenibili, come dimostra anche l'esperienza degli anni migliori dei Parchi della Val di Cornia in Toscana, che ho conosciuto più da vicino, così come espressa nel loro bilancio sociale. Esistono infatti casi virtuosi, che si manifestano spesso tanto meglio quanto più in autonomia rispetto alla gestione pubblica del patrimonio culturale. Questa non è una constatazione consolante, ma indica che c'è spazio per una innovazione che ci affranchi dalla morsa di una scelta che vorrebbe sottrarre i beni culturali alle leggi dell'economia per sacralizzarsi sull'altare di una cultura esente da commerci, e una pratica dell'amministrazione pubblica di questo patrimonio spesso indolente, gelosa, inefficiente.In questo senso è evidente il ruolo che potrebbe avere l'associazionismo culturale, uno degli strumenti più sani di cui l'Italia può dotarsi per alleviare l'affanno dell'intervento pubblico sul patrimonio. Ed è ancor più evidente il ruolo che può avere l'impresa, se la gestione del patrimonio potesse cominciare ad essere affidata – nei mille casi in cui la mano pubblica non ce la può fare - alle migliori energie imprenditoriali, con e senza fine di lucro, e al volontariato. Ma senza mettere in contrapposizione questa bellissima esperienza civile con i diritti dei giovani, che dopo anni di formazione chiedono di veder riconosciute le proprie competenze in un campo dove di spazio ce ne sarebbe davvero per tutti.Se non dobbiamo stancarci di chiedere più personale per l'amministrazione, e più personale tecnico (perché non servono uffici abitati solo da qualche funzionario e da uno stuolo di custodi non qualificati), oggi più che mai tra il posto al ministero e il lavoro sottopagato camuffato da volontariato (che è cosa ben diversa dal volontariato vero, che è invece una benedizione, perché lega i cittadini alle sorti del loro patrimonio), ci sono di mezzo le praterie della libera iniziativa individuale e associativa. E questo – sulla scia della Convenzione di Faro - promuovendo principi per la gestione sostenibile e la manutenzione del patrimonio, come ci insegnava trenta anni fa, inascoltato, Giovanni Urbani, e non – sacralmente – sulla conservazione e il restauro, concetti nobilissimi, certo, ma che sono risultati spesso alternativi, se non antitetici, ai primi. Più personale e risorse nell'Amministrazione pubblica, massima apertura al volontariato vero, porte spalancate ad attività di impresa incoraggiate ed assistite non sono in contrasto tra di loro, sono il tridente che potrebbe farci superare le casematte opposte da una concezione feticistica del patrimonio, paurosa del presente e terrorizzata dal futuro, di cui siamo stati a lungo ostaggi nell'amministrazione, nella politica e anche in molti mezzi di comunicazione di massa.
Il combinato disposto degli articoli 9, 33 e 118 della Costituzione ci dice che il compito della amministrazione pubblica dovrebbe essere quello di garantire la tutela, favorire la ricerca da parte di tutti e orientare la valorizzazione, dando il buon esempio e dando aria alla creatività degli italiani. Nel MiBACT (e anche nel mondo della ricerca e della formazione universitaria) convivono infatti due anime: una che punta, con qualche strappo, ad una riforma inevitabile e da tempo attesa, l'altra che sembra volerci ricordare quanto sia abissale il distacco di certe stanze dalla realtà del Paese. E' in atto un confronto culturale e politico che attraversa gli abituali schieramenti. La burocrazia ministeriale e il corpo accademico più chiuso trova negli anatemi di certi maîtres à penser un appoggio insperato. La gran massa degli addetti ai lavori chiede, in modo diverso ma convergente, di essere messa in condizioni di lavorare per il meglio per il bene comune. Sta alla politica consentirgli di farlo. Sol che si abbia il coraggio di dirsi che le politiche per i beni culturali non possono essere politiche settoriali, perché hanno in sé una visione complessiva che abbraccia la politica economica nel suo insieme, quella ambientale, delle infrastrutture, dei servizi sociali, della formazione.Non dubito che il ministro Franceschini questa consapevolezza la abbia; così come mi sembra chiaro che il coro delle proteste che ha accompagnato le sue mosse questa consapevolezza spesso non la abbia. E tuttavia, quando le voci allarmate sono dettate da esperienza e spirito di servizio, dobbiamo saperle ascoltare, non per frenare ma per andare avanti, non per guardarsi come rivali dalle due diverse sponde, ma per attraversare il guado in massa, andando anche quel po' controcorrente quanto è necessario per raggiungere la riva.
*archeologo, professore ordinario presso l'Università degli Studi Roma Tre, insegna Metodologia della ricerca archeologica. Sul tema dei Beni culturali ha pubblicato L'italia agli italiani. Istruzioni e ostruzioni per il patrimonio culturale (Edipuglia, 2014). Con Laterza ha pubblicato Prima lezione di archeologia (2009).
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