23 ottobre 2018
La mostra racconta l’architettura milanese e i suoi protagonisti dal primo dopoguerra agli anni Settanta: cinquant’anni di intensa sperimentazione che hanno ridisegnato la casa urbana nel nuovo contesto della città moderna. Un'occasione per scoprire una selezione delle più note dimore del capoluogo lombardo: testimonianze letterarie e cinematografiche arricchiranno l’esposizione, mentre saranno organizzati specifici itinerari guidati in città, accompagnati dai curatori, nonché un ciclo di incontri di approfondimento.
Per l’occasione, abbiamo intervistato Orsina Simona Pierini, curatrice della mostra insieme al Alessandro Isastia.
Quali sono stati i momenti più rappresentativi di questi decenni per l’architettura residenziale milanese? Può fare riferimento a progetti e progettisti?
Negli anni Venti sicuramente le figure di Ponti e Muzio sono fondamentali: Gio Ponti, con la casa Rasini o Marmont ad esempio, e la sua rivista Domus affinano e diffondono il nuovo gusto, mentre Giovanni Muzio realizza consistenti blocchi urbani, come la ca' brütta, dove modernità e linguaggio classico giocano equilibri pittorici in facciata. A questi più noti maestri, si affiancano figure locali e raffinate quali Mino Fiocchi e Giuseppe de Finetti, la cui casa della Meridiana introduce alla scomposizione volumetrica dell'edificio. Sono case in cui il mattone (o meglio il klinker) si alterna al cromatismo degli intonaci.
Il lavoro plastico sui volumi troverà i suoi esiti migliori nelle opere del razionalismo lombardo, prime fra tutte le case realizzate a Milano da Giuseppe Terragni: la casa Rustici di corso Sempione e la casa di via Pepe sono il punto di arrivo di una più vasta ricerca sviluppatesi nelle esposizioni della Triennale e anche con i lavori di Figini e Pollini. Sono case luminose, dove l'intonaco gioca a confondersi con il marmo bianco, come nella casa in travertino realizzata da Asnago e Vender in viale Tunisia, o dove il decoro è fatto di linee costruttive realizzate in tubolari di metallo, come in via Euripide.
È nel dopoguerra che l'architettura milanese mette in crisi il concetto di modernità, per integrarlo con una sensibilità legata alla tradizione lombarda: la prima casa di Luigi Caccia Dominioni, in piazza Sant'Ambrogio ne è forse esempio più emblematico, nella sua tensione tra moderno e tradizione. L'eleganza di Gardella riporta la pianta libera in una dimensione di nobiltà e luminosità. A scala urbana è in questo periodo che nascono gli edifici in altezza: la torre al Parco di Magistretti e, simbolo del confronto con le preesistenze ambientali, la torre Velasca dello studio BBPR.
La ripetizione degli appartamenti sul fronte urbano porterà a studiare sistemi di facciate ancora attuali: i blocchi in ceramica di Caccia Dominioni, i disassamenti di Asnago e Vender, i marcapiano e le logge che scorrono in facciata, sono oggi modelli per i tanti architetti stranieri che scendono a studiarli. L'ultimo periodo apre al design: la sperimentazione sulle piante è molto articolata, Zanuso e Meneghetti lavorano sulla prefabbricazione, mentre il giovane Umberto Riva fa cantare la materia del cemento armato.
In che modo gli architetti hanno saputo ricostruire il tessuto urbano post guerra bilanciando tradizione e modernità? Quali gli interventi più comuni?
Dopo il bombardamento dell'agosto del 1943 il centro di Milano era devastato: già dal 1946 gli architetti stessi si organizzano a rilevare lo stato dei singoli isolati, per schedare case e rovine. La conoscenza dei luoghi li porterà a studiare interventi sempre complementari e attenti al contesto, riuscendo, come poche città della ricostruzione, a mantenere un tessuto misto, dove ad esempio la plastica modernità di Luigi Moretti si incastra con sapienza nelle trame dell'antica città romana, a pochi passi dall'intervento più mimetico di Caccia Dominioni in corso Italia.
La città della ricostruzione introduce una densità e una scala decisamente maggiore, ma la regola dell'allineamento su strada e una maggiore altezza retrostante, imposta dal piano regolatore, avrebbe mantenuto l'immagine della cortina su strada, come nell'interessante edificio di Asnago e Vender in via Lanzone.
Come è cambiato il modo di vivere l’ambiente domestico e attraverso quali innovazioni architettoniche? Risalgono a questo periodo i primi esempi di “living”? Se sì, quali sono?
In questi cinquant'anni l'evoluzione degli spazi dell'abitare si innesta con l'immigrazione, la vita in città, le nuove tecnologie e i nuovi materiali. L'appartamento si consolida intorno alla famiglia, la casa si divide nettamente in zona notte e zona giorno, mentre cucine e bagni vanno assumendo ruoli sempre diversi nella distribuzione. Ma è soprattutto l'idea di uno spazio da vivere nella quotidianità, che si apre alla vita della famiglia, più permeabile rispetto al polveroso salotto buono del passato, il living viene sperimentato da ogni architetto milanese in modo diverso: la trasparenza delle case di Gardella o la sinuosità degli appartamenti di Caccia Dominioni raccontano la dimensione ampia delle case della nuova borghesia industriale. È in questo contesto che nasce il design milanese, dove gli architetti disegnavano maniglie, lampade e sedute per i loro clienti.
Qual è stato il ruolo delle riviste e delle produzioni cinematografiche in merito a questo momento di sperimentazione urbana?
Domus e Casabella nascono nel 1928 e sono documenti viventi di questa evoluzione, basti guardare la pubblicità dei nuovi materiali e i temi discussi nella pubblicazione delle case. La prima manterrà nel tempo un carattere più domestico, mentre la Casabella-Continuità di Rogers affronterà con maggiore impegno il ruolo urbano di queste architetture, mentre il cinema si era accorto della nuova immagine della città e Antonioni e Visconti utilizzavano queste case come personaggi delle loro inquietudini.
Paragonando la più rappresentativa casa milanese di questo periodo ad una persona, quali aggettivi la descriverebbero meglio?
L'architettura milanese è riservata e nascosta, bene educata ed elegante nei suoi materiali. I suoi architetti erano noti per i loro vestiti, ognuno aveva un suo stile.
Quali problemi superati dai progettisti di allora si ripresentano oggi?
L'architettura di quegli anni sapeva controllare la scala urbana e il particolare costruttivo, la spazialità interna e l'affaccio sullo spazio collettivo della strada, il disegno del dettaglio adeguato al controllo della materialità. Erano case attente alla durata, come la loro attuale condizione perfetta testimonia. Oggi il problema della costruzione con componenti ha fatto perdere quel controllo del disegno dell'edificio che li aveva caratterizzati.
Se dovesse scegliere una di queste abitazioni come propria casa, quale sceglierebbe e perché?
Gli appartamenti di Caccia Dominioni sono sequenze spaziali dove mi è capitato di stare, oggi per me troppo disegnati: penso che l'ampiezza e la trasparenza della casa di Gardella sia mediata da una domesticità e accoglienza che le rende uniche.