12 gennaio 2016
Seduta nel «salottino verde» di Palazzo Crespi in corso Venezia, luogo ambitissimo dai milanesi che contano, Giulia Maria Crespi commenta con noi l'autobiografia Il mio filo rosso. Il «Corriere» e altre storie della mia vita, appena uscita da Einaudi. A 92 anni, dopo tanti, gravi problemi di salute («sei cancri, ma mai chemioterapia, lo scriva», precisa lei), conserva intatte l'energia e la grinta che l'hanno portata dapprima a ribellarsi alle convenzioni di una famiglia la cui mamma era «borghese e conformista», poi a imprimere una svolta radicale al «Corriere della Sera», di proprietà dei Crespi sin dall'ultimo ventennio dell'Ottocento, spingendo per cambiare direttori ai suoi occhi troppo conservatori e nominando, nel 1972, alla direzione Piero Ottone, infine fondando nel 1975 il FAI, Fondo Ambiente Italiano con Renato Bazzoni, Alberto Predieri e Franco Russoli, sul modello del National Trust inglese («fu Elena Croce, la figlia di Benedetto Croce, a chiedermelo con insistenza»).
Intanto, sempre dal 1975, promuoveva l'agricoltura biodinamica nelle sue tenute di Bereguardo, a sud di Milano. Tutte battaglie che (a parte il «Corriere», ceduto nel 1974), continua a seguire con indomabile determinazione, a dispetto degli inviti dei suoi familiari a prendersi un po' di riposo. Ma lei ribatte: «Non potrei: non solo amo ciò che faccio, ma sento una voce interiore che mi ingiunge di farlo».
Signora Crespi, perché ha deciso solo ora di scrivere le sue memorie?
Benché molti editori me lo chiedessero da tempo e alcuni scrittori e giornalisti si fossero offerti come ghostwriter, mi ero sempre rifiutata: quando una cosa è successa, io non guardo più indietro, specie se mi ha addolorata. Poi, un paio d'anni fa, Ernesto Franco, direttore generale di Einaudi, me lo ha nuovamente proposto e mio figlio Luca, insieme ad alcuni nipoti, mi ha incitata a scrivere. Agli inizi ricordavo pochissimo, anche perché una parte del mio archivio era stata mandata al macero, per errore, da una mia segretaria. Poi però, cercando nella memoria e negli archivi della mia famiglia e dei collaboratori ancora in vita, ho scoperto una quantità inaspettata di materiali. E alla fine mi sono dovuta limitare, anche se avrei potuto e amato raccontare numerose altre esperienze.
Dopo la narrazione della sua infanzia e degli anni della gioventù, una parte importante del libro è ovviamente dedicata alla vicenda della cessione di quote del «Corriere della Sera» agli Agnelli e ai Moratti prima, poi dell'intera proprietà ai Rizzoli. Lei ha parole molto dure per il comportamento di Gianni Agnelli, di cui pure era stata stretta amica.
Con Gianni Agnelli ero amica sin da ragazza; come tutti, subivo il suo charme, ma il suo comportamento fu rovinoso per il «Corriere». Lo trattò come fosse un pallone da football. Del resto egli fu rovinoso per l'intera Italia, dal momento che bloccò il trasporto su binari e promosse invece la costruzione delle autostrade. Era potentissimo, e così è tutta la famiglia: per esempio, quando Gianni era già morto, uscendo da un convegno a Torino, trovai la polizia schierata a formare un cordone intorno al palazzo in cui eravamo. Domandai la ragione a un agente, che mi rispose che stavano arrivando gli Agnelli per una riunione di famiglia. Fu allora che, al passaggio di Marella, sentii partire dalla folla degli applausi. E capii che gli Agnelli sono stati e restano gli ultimi re d'Italia.
Con i Moratti che cosa accadde?
Da parte mia era nata un'amicizia sincera per Gian Marco, e rimasi molto ferita quando scoprii che la famiglia era una semplice prestanome per Iri o Eni come in seguito si rivelò. Anche il simpatico padre Angelo (di cui tuttora serbo il ricordo, anche grazie all'immenso ficus che mi donò allora e che tuttora troneggia nella mia sala da pranzo) mi mentì, perché mi garantiva, come pure suo figlio, di aver voluto acquisire una quota del «Corriere» per lasciare qualcosa di nobile ai suoi figli. Fu una delle molte, gravi delusioni umane che subii in quegli anni. Del resto, lo so bene, ero stupida e illusa. Lo scriva: stupida e illusa!
Quanto incise, nella sua decisione di cedere il «Corriere», la conflittualità permanente che vi si accese in quegli anni?
Incise molto, soprattutto perché diventò un pretesto per i soci (Agnelli e Moratti, Ndr), che se ne servirono per suffragare la loro volontà di ritirarsi dal «Corriere» (di qui la cessione a Rizzoli delle loro quote e, necessariamente, anche la cessione della quota Crespi, nel 1974, Ndr).
Che cosa pensa delle attuali vicende del «Corriere»?
Mi sembra molto grave che il palazzo storico, dove resta l'impronta indelebile di Albertini, sia stato venduto, invece di diventare un museo e trovo squallido che né la Regione né il Comune siano intervenuti per conservarlo. Allo stesso modo è vergognoso il tentativo di eliminare il Campo sportivo (finanziato dai Crespi nel 1936, Ndr) per fare cassa e porre così rimedio ai gravissimi errori compiuti dai gestori del giornale. Qui, per decenni, i dipendenti, le loro famiglie e spesso anche gli abitanti del quartiere potevano fare sport tra alberi secolari. Ma è un problema ancora in discussione e mi auguro che almeno parte di esso venga salvata.
E che cosa pensa dei giornali di oggi?
So che sono profondamente in crisi, indubitabilmente per mancanza di pubblicità e indubitabilmente perché sono subentrati i new media, ma penso anche che i giornali stiano rincorrendo troppo l'esempio di internet e di questi nuovi media: all'estero certi giornali infatti, specialmente inglesi, non stanno perdendo tante copie quanto i nostri. Ricordo che quando ero al «Corriere» i giornalisti potevano assentarsi anche per vari giorni per un'inchiesta, producendo magari non più di uno, due articoli, ed erano spesati di tutto. «Occorrono inchieste e interviste», predicava mio padre Aldo. Oggi purtroppo, per la crescita dei costi, questo non è più possibile: mi dicono molti giornalisti che talora devono persino pagarsi i taxi! La qualità dell'informazione è quindi molto scaduta. E poi, come m'insegnò Piero Ottone, è indispensabile dividere i fatti dai commenti. E questo oggi è sempre più raro: è passato di moda e così il lettore capisce meno a fondo il problema.
Giovanni Spadolini, che era il direttore del «Corriere» quando lei ne era al vertice e che fu sostituito dalla proprietà (un po' brutalmente, per sua stessa ammissione) nel 1972 proprio con Ottone, in seguito avrebbe fondato il Ministero per i Beni culturali. È un fatto di cui lei nel suo libro gli riconosce il merito. Oggi qual è a suo avviso la situazione del Mibact?
Spadolini era un mio grande amico, ma non era un direttore moderno e lontano dalla politica. A suo merito va certamente ascritto l'aver fondato il Ministero per i Beni culturali. Commise però un grave errore in Sicilia, perché non tenne conto del fatto che si trattava di una Regione a statuto speciale e che pertanto era indipendente dal potere centrale. Il che crea tuttora gravi problemi. Il peggio però è venuto in seguito, perché questo Ministero è stato lentamente, volutamente e ingegnosamente distrutto dai passati Governi, che lo hanno ridotto al lumicino: i soprintendenti migliori hanno lasciato, per ragioni di età o perché inviati in sedi meno importanti e decisionali, e molti degli attuali mancano di professionalità e di conoscenze come ahimè alcuni anche di cultura. Ma soprattutto tutti loro, anche i migliori, non hanno a disposizione i mezzi pratici per svolgere il loro lavoro né dispongono di un personale sufficiente per sbrigare le migliaia di pratiche che arrivano sul loro tavolo. Devo poi dire, con dolore, che a tutto si è aggiunta l'introduzione della norma del silenzio-assenso della durata di tre mesi: un fatto estremamente grave, perché se i funzionari non riescono a rispondere entro 90 giorni, ogni pratica può procedere, come se fosse stata approvata. È scandaloso, ma Renzi tace.
Qualcosa però sembra essere cambiato.
Sì, dopo anni il ministro Franceschini ha dato al Mibact un minimo di ossigeno, anche grazie all'assunzione di 500 nuovi funzionari. Serve però un piano strategico che esamini il problema dalle fondamenta. Solo con una Soprintendenza capace e agguerrita e con Piani paesistici stesi da ogni Regione in accordo con le Soprintendenze stesse può nascere una vera e seria tutela dell'Italia, il cui territorio e la cui arte sono ora totalmente allo sbando.
Come si dovrebbe procedere secondo lei?
È un impulso rigeneratore che deve venire soprattutto dal capo del Governo, il quale dovrebbe aver presente che la tutela del territorio, dell'ambiente, della biodiversità, dell'arte, potrebbe diventare lo stimolo per un turismo serio e qualificato, capace di portare occupazione ed entrate finanziarie a molti italiani. Oggi, piangendo, devo dire che purtroppo l'Italia, che è il Paese più completo del mondo per le sue bellezze di arte e natura e per la sua dislocazione geografica, non è al primo, bensì al quinto posto nel turismo mondiale per numero di presenze, dopo Francia, Stati Uniti, Spagna e Cina. Ed è al settimo per gli introiti: il che significa che quello che arriva in Italia è un turismo «povero», composto soprattutto da immensi pullman ed enormi navi da crociera.
Con il FAI lei ha condotto battaglie durissime: ne è valsa la pena?
Ne è valsa certamente la pena. Secondo me il FAI, anche per merito di collaboratori straordinari e dei vertici che si sono succeduti, è l'associazione più rinomata d'Italia. Tuttavia a mio parere, dato il degrado pauroso che sta minacciando la «nostra casa comune» (come scrive papa Francesco) mi auguro che il FAI si occupi con maggiore tenacia e consapevolezza del problema ambientale, tenendo presente che FAI è l'acronimo di Fondo Ambiente Italiano.
Quali sono a suo parere le emergenze oggi più gravi?
Una delle più gravi è quella delle trivellazioni, in cerca di un petrolio che da noi, oltretutto, è poco e di pessima qualità. Le riserve accertate di petrolio nei mari italiani sono infatti attorno ai 10 milioni di tonnellate, pari a circa 7 settimane dei nostri consumi annuali. La stima sale a 13 mesi se consideriamo anche il petrolio nel sottosuolo.Eppure, con il decreto Sblocca Italia della fine del 2014, il Governo ha accelerato le procedure con il rilascio di una concessione unica entro 180 giorni, sia per le ricerche sia per la coltivazione, e ha limitato considerevolmente il ruolo delle Regioni per le estrazioni in mare. Tale strategia «attrattiva» offre inoltre alle imprese, molte delle quali straniere, un pagamento di royalties fra le più basse al mondo, con una quota di estrazione iniziale addirittura non tassata. Un vero invito a nozze!Inoltre il Governo ha recepito la direttiva europea «off-shore», frutto del disastro ecologico nel Golfo del Messico, ma il testo italiano è più debole in termini di sicurezza e di controllo.Nel frattempo quest'anno, senza una vera pianificazione d'area da parte del Governo, sono stati sbloccati molti decreti di concessione per l'estrazione di gas e petrolio nell'Adriatico, decreti che si sommano alle 69 concessioni estrattive già attive, oltre alle 22 concessioni vigenti per la ricerca di nuovi giacimenti. L'Adriatico è un mare chiuso a sud dallo stretto di Otranto, di fatto un grande golfo. Se dovesse accadere un incidente, la vita marina verrebbe compromessa con notevole danno anche per il settore del turismo. Non posso poi non citare la concessione «Po Valley», che prevede la ricerca di petrolio e gas di fronte al parco del Delta del Po, con un'indecente procedura che aggira il divieto di operare all'interno delle 12 miglia dalla costa.Altra forzatura, imposta contro il volere della Regione Abruzzo, dei Comuni e dei cittadini, è la concessione «Ombrina» a ridosso della costa teatina e dell'omonimo nuovo Parco nazionale. Io spero molto di riuscire assieme al Gruppo Ambiente del Fai, a fermare questa indecenza tutta a danno di Madre Natura. Vorrei ricordare che anche in Lombardia le perforazioni sono ancora in atto e altre sono state programmate in questa pianura che era tanto cara agli Asburgo per la sua fertilità e che Radetzky ha difeso a oltranza.
C'è altro?
Certo. Un altro dramma che affligge drammaticamente l'Italia è il dissesto idrogeologico: si costruiscono strade nelle montagne e case dove i fiumi esondano, si imbrigliano con il cemento i corsi d'acqua, si intubano le acque sotto le costruzioni. Si creano drammi terribili per il territorio e le vite umane.Pensiamo alla tragedia di Monterosso del 2011, che ogni anno si ripropone con nuove minacce, e all'impermeabilizzazione selvaggia del nostro suolo consumato da costruzioni o strade alla velocità di 8 metri quadrati al secondo.Il Governo sta lavorando alla prima legge nazionale sul consumo di suolo, fondamentale presidio di questa risorsa vitale non rinnovabile (perché si formi nuovo suolo fertile, laddove si è costruito, servono almeno 500 anni!), ma nel frattempo la Regione Liguria rischia di approvare un Piano Casa disastroso che incentiva alla costruzione come leva dello sviluppo! Il suolo consumato perde compattezza, solidità, tenuta, e frana: sono 470mila le frane censite in Italia!Il Governo è ora intervenuto, ha stanziato ingenti somme per opere di prevenzione, ma il tempo perso è enorme. Pensiamo alla Sicilia: quest'anno le tre arterie principali sono state danneggiate da frane e chiuse al traffico, come l'autostrada Catania-Palermo, ad esempio, interrotta per diversi mesi e oggi «ricucita» con una bretella di emergenza nel tratto in cui hanno ceduto i piloni del viadotto. Manca un vero governo del territorio e qui mi ripeto: sono indispensabili serissimi Piani Paesistici.C'è poi l'incubo dell'amianto, all'attenzione dell'opinione pubblica anche per la realizzazione delle gallerie della Tav in Piemonte e del Terzo Valico dei Giovi (per l'Alta Velocità Tortona/Novi Ligure/Genova, Ndr). Sono opere che richiedono scavi in rocce ricchissime di amianto, che ci pongono davanti a forti problemi di inquinamento del territorio e delle falde e alla forte necessità di vigilare sui lavori e sullo smaltimento dei materiali.Non ci si può infine dimenticare del dramma della Terra dei fuochi in Campania, dove per anni sono stati seppelliti o bruciati rifiuti tossico/nocivi, con evidenti conseguenze sullo stato di salute della popolazione.
Lei si occupa dal lontano 1975 di agricoltura biodinamica (allora, quasi un'eresia) nella sua tenuta delle Cascine Orsine a Bereguardo, nel Pavese: in questo ambito che cosa la preoccupa di più?
Oggi una vera piaga è rappresentata dal glifosato, uno dei pesticidi più utilizzati in Europa, giudicato probabile cancerogeno dall'Iarc, l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. Io però vado oltre e come tutti i miei amici dell'Associazione dell'agricoltura biodinamica, con cui collaboro da 40 anni, sono estremamente contraria ai pesticidi, ai diserbanti e a tutte le sostanze chimiche che vengono buttate sul terreno per eliminare insetti, malattie fungine ed erbe infestanti e favorire una maggiore resa. Ma purtroppo su questo tema l'Iarc è molto debole nelle denunce.
Che cosa proponete, allora?
Mia cara, lei non sa che la più preziosa «pappa» per la terra è lo stallatico, tra cui primeggia quello delle mie adorate vacche delle Cascine Orsine? E in relazione a questo tema, non posso non citare le sementi geneticamente modificate, con i problemi che comportano, due tra tutti la questione delle sementi brevettate, sottratte al controllo dei contadini, e la sperimentazione in campo che contamina i campi non/Ogm confinanti. C'è una famosa professoressa, nominata senatrice a vita dal presidente Napolitano, molto presente sui giornali a favore degli Ogm, patrocinati questi ultimi anche dal caro amico Umberto Veronesi. Io voglio domandare loro: «Non vi rendete conto che in tal modo la biodiversità si sta annullando ovunque sulla Terra?».
Dunque lei non ha più speranza?
No, io ho speranza, perché l'enciclica «Laudato si'» di papa Francesco (che ahimè, secondo le mie indagini, nessuno tra coloro che contano ha letto) denuncia con chiarezza quanto sta accadendo, ci dice che siamo nell'ora estrema e stigmatizza le multinazionali chimiche che diffondono le loro sostanze inquinanti anche attraverso un'oculata corruzione. Il Papa loda la ricerca scientifica, precisando però che essa va unita al senso morale e alla fantasia, e conclude tessendo le lodi alla Bellezza: una delle mete a cui noi del Fai da sempre tendiamo.
Ada Masoero Vernissage - Il Giornale dell'Arte, gennaio 2016
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