Marco Magnifico: il FAI e l'Alpe, storia di una consapevolezza

Marco Magnifico: il FAI e l'Alpe, storia di una consapevolezza

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Marco Magnifico: il FAI e l'Alpe, storia di una consapevolezza
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27 febbraio 2019

Pubblichiamo il discorso del vicepresidente esecutivo del FAI Marco Magnifico tenuto a Brescia il 16 febbraio, in occasione del 23° Convegno Nazionale dei Delegati e Volontari FAI "Progetto Alpe: l'Italia sopra i 1.000 metri"

L’inizio, nel maggio 1993, fu molto timido. Così timido da considerare il Maso Fratton - un meleto inselvatichito a 600m di altitudine sopra Trento, donato al FAI dalla Bayer e dove pare si fosse vista una cacca d’orso - quasi un errore di percorso. Un bel torrente, qualche masso erratico, il rudere di una casa abitata fino agli anni ’50…; non sapevamo cosa farne e trattandosi di orsi chiedemmo alla locale sezione del WWF se volesse gestire questi due ettari in nostra vece…e ce lo dimenticammo. Fino all’altro ieri. Anzi fino ad oggi, visto che è la prima volta che ne parlo in pubblico.

Tre anni prima in realtà, nel 1990, avevamo già avuto un segnale…ma così flebile che non ci eravamo nemmeno accorti che il Castello di Grumello, donato al FAI dalla Società Enologica Valtellina, a Montagna in Valtellina (almeno il nome del comune avrebbe potuto dirci qualcosa!) era situato nel bel mezzo delle Alpi Orobie, proprio alla stessa altezza del Fratton, a circa 600 metri; ma allora delle Alpi ce ne fregava pochino, tutti presi come eravamo solo dalle pietre che raccontavano storie delle lotte tra Guelfi e Ghibellini, tra Lodovico il Moro e il Cantone dei Grigioni…

L’interesse per il paesaggio e per le vigne era ancora di là da venire…

Per dieci lunghi anni il mondo dell’Alpe, forse seccato per la nostra noncuranza, evitò di mandarci altri messaggi; ma quando decise di farlo lo fece alzando un po’ la voce! Nel 2003 infatti 1300 persone gridarono al FAI che quel mulino del 1674, in quella radura a 1000 metri di altitudine in fondo alla Val Brembana tra gli abeti e i ruscelli dominati dal Pizzo del Diavolo era il loro Luogo del Cuore…larghe crepe lo solcavano e i suoi ingranaggi originali per produrre olio di noci e farina d’alta quota rischiavano di collassare. Fu il primo Luogo del Cuore salvato e l’aria di montagna unita alla polenta e ai canti degli Alpini penetrarono nelle narici, nelle fauci e nei cuori.

Fummo stupiti e commossi dal modo in cui fummo ricevuti dai 52 abitanti di Baresi…erano quasi increduli che noi, dalla lontana e ricca Milano, ci accorgessimo di loro; ma noi eravamo talmente contenti di essere ricevuti come dei principi che non ci interrogammo sul perché…e così, con questa buona dose di inconsapevolezza, affidammo il Mulino perfettamente restaurato alla locale, neonata Associazione Mulino Gervasoni…una visitina una volta l’anno, un po’ di manutenzione e nulla più…!

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Ma nel 2011 l’amico Stefano Tirinzoni, indimenticato Capodelegazione di Sondrio e morto troppo giovane, ci tirò un bello scherzo lasciandoci in eredità ben 200 ettari di pascoli ormai quasi abbandonati alle falde – ci fece molto ridere – del Monte Culino e del Monte Pisello; nome che viene – siamo seri!, da “alpesell”, cioè piccola alpe; qui non si trattava più di restaurare qualche edificio (anche!) ma di cominciare ad occuparsi del taglio dei boschi, dell’abbandono dei pascoli, del bosco che avanza e della qualità dell’erba che diminuisce…; “dovete riportare le vacche”, ci disse l’Eugenio, marito di Nadia Cavallo che con amore e intelligenza gestisce il rifugio Alpe Piazza immerso tra le boasce e i rododendri, proprio di fianco ai nostri alpeggi…; “le vacche?” ci dicemmo guardandoci attoniti Paola Candiani ed io…”le vacche…!”

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Fino a quel momento avevamo avuto a che fare solo con architetti e ingegneri …o con la mitica Pinin Brambilla che restaurava i nostri affreschi e Gae Aulenti che ci seguiva i progetti di restauro di Villa Panza…”ma dove le prendiamo le vacche?” chiedemmo con un fil di voce all’Eugenio” “Eh mica problema! Quei pascoli erano i più pregiati della zona! Ve le porto io le mie vacche!...ma dovete rifare i sentieri!” “Ma ci sono già i sentieri!” rispondemmo solleciti Paola ed io. “Ma va! Per le vacche da latte quei sentieri non son mica buoni, quelli van bene per voi!” “Oddio! I sentieri per le vacche”; rifacemmo quindi i sentieri per le vacche…e le vacche tornarono; ma presto tornerà la Bruna Alpina vera, quella originale di quei pascoli, mica quelle selezionate nei laboratori di genetica degli Stati Uniti che della Bruna Alpina hanno solo il colore!

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Improvvisamente un’architetto e uno storico dell’arte alle prese con i problemi delle vacche…ma che divertimento! Che sorpresa! Che cambio di orizzonti lì dirimpetto al Monte Badile, tra quelle valli buie e ripide dove la guerra si fa ancora sulla qualità del Bitto: il Bitto storico (che di storico ha poco) e il Bitto ribelle che si oppone alla globalizzazione del gusto dei formaggi!! Un nuovo mondo ci si apriva… Avevamo appena “digerito” i problemi della Bruna Alpina (“brown” o “original brown”) che ci si presentò, dopo solo 4 anni, il terribile problema della vacca Burlina, della quale Mussolini aveva decretato la scomparsa perché poco produttiva, benché il suo latte avesse una qualità tanto migliore; ma a lui (e non è il solo) della qualità poco importava. La Burlina, seppur decimata, si salvò grazie a un manipolo di mogli coraggiose, che manifestando di fronte alle carceri fasciste dove erano stati rinchiusi i loro mariti che si erano opposti all’abbattimento delle loro vacche, e urlando “Viva Mussolini, viva le Burline!”, ottennero la liberazione dei mariti, che salvarono quelle poche vacche nonne o bisnonne di quelle poche che ancora oggi sanno arrampicarsi con agilità sugli erti pendii del Grappa e senza il cui latte il “Morlacco” e il “Bastardo” (i grandi formaggi locali) ce li sogniamo!

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Bitto, Morlacco, Burlina, Bruna Alpina, Bastardo, pascoli impoveriti, bosco che avanza…tutto nuovo! Tutto da tentare di capire…; all’inizio a tentoni, poi – non siamo scemi – un po’ meglio; amici fidati come il Gusmeroli che è qui in sala ma - soprattutto! - tante, tante tante porte aperte, tanti “benvenuti”, tanti visi di montanari speranzosi severi all’apparenza ma col sorriso della generosità pronto a illuminarli, tanta speranza! Quella che, una sera di novembre del 2017, ci lasciò esterrefatti e col groppo alla gola nel cinema – teatro di Quero Vas, paese a cavallo del Piave e stretto tra le montagne teatro della Grande Guerra, che nel 1917 fu raso al suolo e la cui chiesa fu teatro di una rappresaglia atroce che lasciò sui gradini del sagrato decine e decine di ragazzi italiani…; quella sera nel cine-teatro c’era tutto il paese: vecchi, giovani, intere famiglie e il simpaticissimo sindaco con tutto il Consiglio Comunale per vedere in faccia e ascoltare questi signorini milanesi che andavano dicendo “vogliamo riportare le Burline là sul Fontana Secca a 1600 metri!”; sui pascoli, che i fratelli Liliana e Bruno Collavo avevano regalato al FAI l’anno prima.

Volevano sapere se era proprio vero, se non era la solita promessa che sale dalla pianura, volevano avere la certezza che questo FAI di Milano non fosse un’illusione come tante…; ma presentammo un progetto credibile quella sera, esattamente 100 anni dopo quel 21 novembre 1917 quando, proprio sui pascoli ora del FAI, feriti e bucherellati dalle trincee, si consumò la tremenda sconfitta italiana che lasciò su quei pascoli i corpi di migliaia di giovani italiani e austriaci che combattevano, nel gelo di un inverno precoce, per le loro patrie. Ma, come ci ricordò Ermanno Olmi in quelle indimenticabili immagini, “Torneranno i prati”, pieni di Burline, di fiori e di latte. Anche qui naturalmente nuovi problemi…Fontana Secca; anche le vacche bevono ma acqua qui non ce n’è proprio; ci vogliono le pose…; oddio le pose! Cosa sono…? quelle vasche che raccolgono l’acqua piovana e che non bastano più …. Bisognerà farne altre .

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Stavamo imparando una cosa basilare: ogni zona alpina ha i suoi problemi; ogni pascolo ha erbe differenti, ogni montagna ha la sua vacca, ogni vacca fa il suo formaggio. Una varietà non solo morfologica, o naturale, ma anche storica e antropologica per noi inimmaginabile fino a qualche anno prima, quando le mucche per noi erano tutte uguali, quando il bosco era solo “buono”, quando ogni prato era uguale all’altro…; ma ormai avevamo capito che, anche qui come in tutte le cose della vita, i segreti per non sbagliare erano due: studiare e ascoltare chi in quei luoghi è nato e cresciuto.

L’iniziale sospetto di quelle genti alpine, man mano che i colleghi dell’Ufficio Tecnico e dell’Ufficio Valorizzazione frequentavano i vari luoghi, lasciò il posto a legami di collaborazione e amicizia, credetemi! forti come le corde dei montanari.

Fu l’inizio della fine della nostra incosapevolezza! E l’inizio anche della percezione di un segnale che veniva dall’alpe sempre più forte e più chiaro che si arricchisce nel 2017 di una specie di martellamento in stereofonia, grazie al quale due identici messaggi ci giugnono da Cogne, alle falde del Gran Paradiso e da Otro, una valle laterale della Valsesia. Glorianda Cipolla, vecchia amica e capodelegazione della Valle d’Aosta, mi telefona. “Vieni a Cogne! Il Sindaco Allera ti vuole vedere…sai, un alpeggio…”; a Cogne sono di casa, cammino su quei monti, scendendo da Courmayeur, quasi ogni estate; “va bene, vengo!”. Non faccio in tempo ad attaccare la cornetta che mi chiama un vecchio amico, grande montanaro, Maurizio Solaro. “Marco, ti ricordi Otro, dove ti portai una decina d’anni fa?” “Certo!” “Beh la Presidente dell’Unione Alagnese Anna Gualdi, un’amica, ti vuol vedere…sai, due baite Walser del ‘600, vogliono il FAI…”.

Non ci posso credere! La Montagna, si sa, fa sul serio! Se ci si mette non scherza! Sia dalla valle di Cogne – peraltro ricca e celebre località di villeggiatura che ha saputo limitare per ora i danni derivanti da un turismo troppo ricco– che da Otro – oasi di immacolata perfezione in mano a un manipolo di guerrieri discendenti del popolo Walser che la difendono fin’anche da una carrozzabile (vi si giunge solo a piedi con un’ora di cammino), ci arrivavano nuovi segnali, sempre di criticità, ogni volta diversi da quelli precedenti ma in un certo senso simili…Anzi! Come le Goldberg di Bach (sapete…la madre di tutte le variazioni…) troviamo tante declinazioni diverse sullo stesso tema: l’affanno, se non si vuole morire, nel progettare e costruire un nuovo futuro da parte di chi si sente…non già forse del tutto dimenticato ma come…accantonato, parcheggiato in un passato dalla iconografia incantevole ma segnato da una realtà a volte solo dura, spesso durissima, ogni tanto disperata.

Ovunque, sempre raccontati con grande dignità e senza piagnistei, gli stessi problemi; lo spopolamento, i giovani che se ne vanno, le chiese senza battesimi ma solo funerali, i negozi che spariscono, le stalle che chiudono (In Valle d’Aosta in 10 anni si sono persi 300 allevamenti con 4000 capi di bestiame. Ogni anno chiudono circa 30 stalle), il personale qualificato che manca, gli alpeggi che non riaprono l’estate dopo quell’ultima quando le vacche ancora ci arrivarono, i vecchi che rimangono soli, il medico condotto che non c’è più, i cambiamenti climatici che rubano anche i ghiacciai, quei pascoli abbandonati non più sorvegliati dai pastori, non più curati dalle mandibole delle vacche e non più nutriti dalle loro boasce, le malghe che crollano come il prezzo del latte, i formaggi tipici – un tempo orgoglio e ricchezza di ogni valle – che oggi il pubblico non conosce quasi più perché il mercato gliel’hanno rubato i grandi caseifici della pianura che certo non producono formaggi con quei profumi che solo il latte dei pascoli alti possono dare; e poi ancora la rete internet che non arriva, come ogni tanto nemmeno il segnale della televisione…sacerdoti che hanno dieci parrocchie….È un’Italia emarginata. Certo! è un’emarginazione diversa da quella violenta e tragica dei quartieri periferici di tante nostre città – dallo Scampia a Napoli allo Zen di Palermo – tra colate di cemento e un degrado sociale spesso agghiacciante. NO! E’ un dramma che si consuma tra le genziane e i camosci, tra i ranuncoli di primavera e i larici d’oro dell’autunno, tra i cieli tersi e i paesaggi incantati dalla neve che tutto ricopre…è un dramma silenzioso scandito da sottrazioni continue: oggi un negozio, domani una stalla, ieri il prete, dopodomani il dottore…

A un certo punto, come nel film di Giorgio Diritti “Il Vento fa il suo giro”, rimangono in pochi, magari incattiviti dalla solitudine, sempre più aspri mentre le case attorno alla loro un giorno chiudono le finestre e poi crollano…

Così dappertutto, in quelle decine e decine di valli nascoste che solcano le nostre Alpi; dappertutto tranne laddove i troppi soldi hanno sostituito le vacche con i SUV; a Courmayeur – luogo a me carissimo - la “desarpa” non si fa più perché la puzza di cacca - cioè il profumo della boascia - dà fastidio alle commesse e ai clienti dei marchi di lusso che hanno sostituito le antiche botteghe e i negozi di piccozze e laddove le neve artificiale, con i suoi additivi, crea durante l’estate delle lande desolate dove la genziana e l’epilobio sono solo un ricordo…Ove niente ove troppo.

E ancora una volta, parlando con Glorianda, nasce un sogno: “E se portassimo il FAI proprio al cospetto di Sua Maestà?” (così chiamiamo il Monte Bianco lei ed io) “Se ridessimo vita al Rifugio Torino vecchio, poveretto là sotto quasi abbandonato ma ancora con tutta la sua dignità?” “Parlo io col CAI dice Glorianda”…

Stava nascendo l’idea di un progetto “mon love”, la sensazione della “chiamata”, un po’ come quel giorno a quel Paolo sulla via di Damasco; comincio a parlarne, timidamente, vedo i colleghi entusiasti…Si fa strada l’idea di un “Progetto Alpi”. Dai! Finalmente, come subito ricorda Carandini, un progetto in grado di emulare il grande “Appello Nettuno” del National Trust, la cui storia tante indicazioni continua a darci; un progetto che ci faccia percepire davvero “Nazionali”, oltre alle GFP e ai Luoghi del Cuore; si ragiona ad alta voce tutti assieme, ogni ufficio dice la sua…Ne parliamo coi Presidenti Regionali del FAI riuniti a Milano; entusiasmi ma con qualche “mugugno”…; “Scusate, voi del Nord…e gli Appennini? E i Nebrodi? E il Gennargentu?”. Hanno ragione! Si corre ai ripari…”Progetto Montagna” “Ma no!” “Progetto Alpi e Appennini?” “Ma va, il Gennargentu mica è Appennino…”.

Ma l’idea è ormai lanciata! Carandini, con la sua passione per la cartografia, chiede una carta fisica dell’Italia e – non ce ne eravamo mica resi conto prima! – la montagna è l’unico vero elemento unificante del nostro Paese; tutte le regioni hanno il mondo della montagna con i pascoli, la transumanza, i boschi; e il FAI, oltretutto, è già presente sugli Appennini! Su quello ligure al Mesco e poi nella meravigliosa Sila! Se dire che Mesco è appennino è forse un po’…”tirato” (ma la tematica è identica! Spopolamento, abbandono delle coltivazioni, razza vaccina tipica quasi estinta – la vacca Cabanina piccola e leggera tanto adatta ai terrazzamenti! – pascoli divorati dal bosco…), la Sila è in tutto e per tutto il regno di boschi, alpeggi, agricoltura tipica…La celebre vacca Podolica che ogni anno fa addirittura due transumanze! Ed è proprio la storia che racconteremo sia a Mesco che al Casino Mollo, donato al FAI in quel sublime intatto paesaggio dalle sorelle Mollo proprio di fianco ai celebri “Giganti della Sila”, uno dei pezzi di bosco più impressionanti d’Italia!

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È fatta! E un mattino mentre mi faccio la barba mi viene anche in mente il nome più logico e corretto: Alpe, dice la Treccani: “Alpe: Gruppo montuoso in genere. Complesso di pascoli dove si esercita l’Alpeggio, con annessi ricoveri per i pastori e per la fabbricazione del formaggio”. Un mondo di natura, di prati, di uomini, di animali (non solo vacche ma anche capre e pecore!)

Progetto Alpe” dunque! E per essere più precisi: “L’Italia sopra i 1.000 metri”.

Ed eccoci qui oggi a presentarvelo questo progetto, eccoci qui oggi a dire a quel mondo che Fabrizio Barca ha così ben tratteggiato nella sua presentazione delle “Aree Interne” (60% del Territorio italiano, 54% dei comuni, nel quale oggi vivono 10 milioni di italiani!), a dire a quel mondo in affanno, a quelle periferie del paese, a quegli italiani che pur nella bellezza dei loro paesaggi la società ha emarginato, a quelle vacche di montagna che rischiavano di sparire soppiantate dalle grassone di pianura che fanno un sacco di latte, a quei paesi senza più parroco né negozi, né bambini né scuola, a quegli alpeggi inselvatichiti dove le belle romantiche malghe non sono più adatte alla vita del XXI secolo…e che quindi vengono abbandonate se non si autorizzano e finanziano indispensabili lavori che consentano, anche a 2.000 metri, una vita civile seppur spartana e poi, soprattutto, per dire a quel mondo che ancora ci crede (ed è tanto!), a quei piccoli imprenditori che hanno deciso di resistere lassù nelle loro valli, con le loro mandrie, a quegli artigiani che perpetuano tradizioni secolari di tessitura, o lavorazione del legno, a quegli abitanti che puntano su un turismo di nicchia ma con gli scarponi o le ciaspole e non col SUV…ecco, per dire a quel mondo orgoglioso e austero che, timidamente, con umiltà – ma mai con modestia – da oggi ci siamo anche noi, pronti assieme alle decine e decine di associazioni, di studiosi, di gruppi spontanei e di enti che di quel mondo già si occupano (e penso tra tutti al CAI ma non solo!) a fare la nostra parte con i nostri mezzi, il nostro stile, il nostro metodo, con il “nostro modo di essere ambientalisti” e cioè, restaurando, raccontando, gestendo nuovi pezzi di bosco, di alpeggi, nuove malghe, qualche stazzu sardo, magari un borgo abbandonato, rimettendo vacche giuste al posto giusto, dando coraggio (per quel che possiamo) a chi sull’Alpe e dell’Alpe vuole vivere, per perpetuare aggiornandole con tutto quello che la tecnologia offre oggi, antiche e fondamentali tradizioni produttive, artigianali e culturali del nostro Paese sopra i 1.000 metri; pezzi di Italia e di Storia che ci verranno – è un appello! - affidati in donazione, in concessione, in eredità…perché ce ne possiamo occupare, per sempre e per tutti, così facendo, come sempre, la nostra parte ma anche e, vorrei dire soprattutto, per essere vicini, solidali e soprattutto compagni di chi vive e custodisce quelle parti del nostro Paese, oggi considerate marginali, ma che devono tornare a giocare, nei futuri decenni, quel ruolo così fondamentale che fino al secondo dopoguerra ebbero per lo sviluppo, la cultura e l’identità del nostro Paese.

Marco Magnifico

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