10 marzo 2015
Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia e consigliere FAI, riflette sullo statuto dell'architettura nel nostro Paese.
"Chi scriverà la storia d'Italia di quest'ultimo mezzo secolo parlerà di un popolo che, giunto rapidamente a uno stato di benessere e ricchezza diffusi come mai prima, si mostrò capace di esprimere una domanda qualitativamente alta per ciò che riguardava l'abbigliamento, maschile e femminile, le scarpe, gli oggetti personali, l'igiene personale, il cibo e la salute, gli arredi degli spazi domestici, le suppellettili. Ricorderà che questa capacità gli veniva riconosciuta dal mondo intero. Da questo livello elevato della domanda era infatti nata anche una capacita di ‘produrre' beni di grande qualità in tutti quei campi nei quali si applicavano genialità creativa e tecniche collocandolo tra i primi Paesi nel mondo.
Sarà, invece, imbarazzato nel non saper spiegare come mai questo stesso popolo non fu capace di manifestare con altrettanta qualità le proprie capacità di organizzazione dello spazio ‘abitato', e si dimostrò, al dunque, così incapace di porre domande all'architettura, fino a rifiutarla integralmente. Nel dilagare del costruito, si accontentò di soluzioni banali, mediocri, spesso violente, scarsamente o per nulla pensate; annientò interi paesaggi senza realizzarne di nuovi, abbassò grandemente il ‘valore' del territorio che abitava. Il surplus di ricchezza venne impiegato non tanto per migliorare l'abitare, ma piuttosto per moltiplicare, oltre lo stretto necessario, i volumi costruiti. Per lo stesso fenomeno d'induzione reciproca, alla bassa qualità della domanda si correlò un altrettanto basso livello dell'industria di riferimento, che rimase sostanzialmente arretrata (più di qualsiasi altro settore del Paese) e non si sviluppò in soggetti capaci di progettare e realizzare l'abitare, ma in grado soltanto di costruire, nel significato più elementare del termine. Al privato che dimostrava questo basso livello, corrispondevano istituzioni pubbliche che, sempre meno, erano in condizione d'imprimere con la propria azione interventi a una scala adeguata.
Questo stesso popolo spese per lunghi anni molte più risorse di quelle di cui disponeva, creando un enorme deficit pubblico, ma il surplus di spesa fu destinato principalmente alla costruzione di volumi e al benessere individuale, alle seconde case, alle pensioni, alla sanità, cioè al benessere inteso come lo star bene. Comfort personale e sicurezza privata dominarono anche nelle soluzioni offerte per il costruire. Abitare diventò poco più di una funzione fisiologica anche quando era circondato di qualche lusso. La linea di confine tra la proprietà privata e quella pubblica – nella quale si rende palese il rapporto tra noi e gli altri, tra il privato e il pubblico, cioè tra noi e noi stessi in quanto parte della comunità – è una lunga linea d'indifferenza e banalità che percorre e annienta chilometri e chilometri di strade consolari, statali e provinciali e i relativi quartieri interni. Un particolare: girando per quel Paese si notava che era segnato da un elemento grafico architettonico dominante, che ormai identificava gran parte del territorio: un'infinita e continua linea di muretti di cemento armato alti 50 cm, sormontati da una rete metallica, che stavano a dire che non solo non abbiamo pensato a questo momento del nostro vivere (l'essere noi il privato e anche il pubblico, l'essere “noi in relazione con”), ma abbiamo anche trattato la questione con sprezzante indifferenza. Quei muretti sembrano voler dire che la nostra sicurezza e il nostro comfort esauriscono il nostro impegno, la nostra dimensione umana e le nostre aspirazioni. Pretendiamo di nascondere il vuoto con una grande e retorica attenzione ai beni culturali che strumentalmente viene utilizzata per significare che le città sono quelle che abbiamo ereditato, e che noi siamo quindi esonerati dall'applicarci all'abitare della nostra civiltà (per l'identità ci basta riconoscerci come rentier ed ereditieri) dando indirettamente un grande riconoscimento al secolo XIX che plasmò le città così come le conosciamo. Che poi questo stesso Paese allevasse al suo interno, nelle sue università, un numero di studenti di architettura che in media per abitante era due volte e mezza la media europea sarà motivo di altre domande per lo storico curioso.
Estendendo l'osservazione al tempo presente, si chiederà chi sono mai gli architetti cui è stato affidato il compito di progettare. Scoprirà così che l'architetto principale è un'entità che dirige un ufficio comunale, il titolare del regolamento edilizio, giacché quest'ultimo a determinare le forme dominanti. In particolare, come si può notare, la misura concessa allo ‘sporto' per i balconi dei piani superiori sta dando vita a un'architettura fatta di soli sporti. Il regolamento sul numero di posti macchina da realizzare per unità abitativa nuova (inadeguato) determina l'inevitabile e totale uso a parcheggio privato delle strade pubbliche circostanti mentre la dimensione ridotta delle aree alle quali si applica la procedura pomposamente definita “urbanistica negoziata” conduce a piccoli insediamenti dove alcuni alberi, di recente messi a dimora, e qualche pratino segnano lo spazio di verde pubblico ‘negoziato'; il tutto, naturalmente, circondato dall'immancabile muretto di cemento di 50 cm con sovrimposta rete metallica.
L'architettura – si sa – ha a che vedere con il rapporto pubblico-privato, anzi è essa stessa produttrice di beni pubblici: dà forma allo spazio interno ed esterno, quello che da noi tutti è fruito liberamente e gratuitamente. Da essa ci aspettiamo che l'uomo non si riduca a un cittadino dimezzato, ma sappia identificare il luogo del suo abitare come luogo della manifestazione piena di sé, misura e contenuto della propria Zivilisation. Oggi il pericolo è che la disattenzione e la mancanza di consuetudine o, meglio, la consuetudine con il banale, conduca – ove già non l'abbia fatto – alla perdita del desiderio per l'architettura, mentre quest'ultima è già sottoposta a pressioni e condizionamenti esterni fortissimi, come vogliono rappresentare le biennali recenti: in primo luogo da parte delle tecnologie, che possono indirizzarla al vuoto spettacolo eccentrico, da un lato, o al comfort senza forme, dall'altro. Mantenere vivo il desiderio (per l'arte e l'architettura) sembra oggi la questione principale. Questo vuol dire innanzitutto promuovere una diffusa conoscenza delle possibilità alternative del fare. Senza questa conoscenza, difficilmente potrà essere espresso alcun desiderio e formulata una domanda in merito al nostro abitare proprio da quelli che dovrebbero essere i primi diretti interessati. Questi possono ormai essere assuefatti a prendere ciò che viene offerto come l'inevitabile cui non si riesce neppure a immaginare di contrapporre un diverso possibile.
Da qualche tempo, una nuova sensibilità ha portato a formulare la necessità di nuovi drastici vincoli sull'uso del territorio nel nostro Paese. La proposta, con varianti interpretative, è quella di non incrementare la superficie costruita. Si tratta di un salto morale e politico alto e significativo. Ma quanto sarà velleitario se, nel frattempo, non saranno anche messi a punto i modi con cui si dovrà intervenire nelle sbrindellate periferie e nella dilagata mediocrità del già costruito. Simmetricamente al divieto, dovrebbe cioè essere messo a punto il quadro normativo istituzionale ed economico adatto ad affrontare il già costruito (male), e a sperimentare soluzioni su scala adeguata, altrimenti la tanto conclamata “riqualificazione delle periferie” altro non potrà essere che qualche permesso a costruire nei limiti delle proprietà fondiarie esistenti, per volumi circoscritti che andranno semplicemente ad aggiungersi a quelli intorno. Possibilmente, saranno anch'essi circondati dal muretto di cemento con rete sovrapposta."
Elzeviro di Paolo Baratta, Presidente della Biennale di Venezia apparso su Domus di gennaio 2015, pp. 141-143
Nato a Milano, Paolo Baratta si è laureato in Ingegneria al Politecnico di Milano e in Economia all'Università di Cambridge. Dopo aver ricoperto vari incarichi pubblici, è stato nominato presidente della Biennale di Venezia, incarico che detiene attualmente.
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