Guido Pietropoli: Prendersi cura del Memoriale Brion

Guido Pietropoli: Prendersi cura del Memoriale Brion

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Guido Pietropoli: Prendersi cura del Memoriale Brion
Focus

04 luglio 2022

Il discorso Guido Pietropoli, architetto e direttore dei lavori di restauro del Memoriale Brion, tenuto il 30 giugno presso il MAXXI a Roma in occasione della presentazione al pubblico della donazione al FAI del complesso funerario capolavoro di Carlo Scarpa a San Vito d’Altivole (TV).

Ringrazio il MAXXI, nelle persone di Giovanna Melandri e Margherita Guccione, e il FAI, nella persona di Marco Magnifico, per l’invito a parlare del Memoriale Brion.

Un ringraziamento particolare a Ennio Brion che ha commissionato il restauro e ha finanziato generosamente i lavori offrendo la totale disponibilità affinché si potesse fare quanto era necessario.

Quando mi laureai nel 1970 con il Professore - così Scarpa era chiamato all’IUAV - ero ben consapevole di fare parte della schiera delle anime perdute che seguivano il profumo del maestro… e questo profumo non era ben visto dai piccoli rivoluzionari che si agitavano all’università di Venezia.
La nascita del complesso monumentale di San Vito d’Altivole non fu accolta con entusiasmo ma piuttosto con veri e propri sfregi; di essi Carlo Scarpa ebbe a dolersi nel novembre 1976 durante la conferenza all’Akademie der Bildenden Künste di Vienna.
È noto che il cantiere di quest’opera temeraria ebbe inizio negli anni della contestazione studentesca che segnò la rivolta dei figli verso i padri. Il tempo e la vita mi hanno ammaestrato che la nostra cultura è molto lontana dall’uccisione del padre; infatti essa io coltivo l’imperativo categorico di portare il padre sulle nostre spalle come mostra lo straordinario gruppo scultoreo di Enea e Anchise a Villa Borghese.
Per Carlo Scarpa la Tradizione è sempre stata un faro che ha illuminato il suo cammino e questa luce ha conferito alla sua opera quella serenità che molta architettura moderna non è riuscita ad attingere a causa dell’ideologia che ha giudicato banale o addirittura borghese la fatica operosa tesa a raggiungere la massima espressività delle forme architettoniche.
Tutto quanto i piccoli rivoluzionari non furono in grado di vedere nell’opera di Carlo Scarpa si mostra con evidenza nel complesso di San Vito d’Altivole, ora molto opportunamente designato con la parola Memoriale.

Luogo della memoria o anche - parafrasando Corbusier - “macchina poetica per l’elaborazione del lutto” la visita al Memoriale Brion offre una sequenza di accadimenti che ha origine nell’“invitation au voyage” dei Propilei e prosegue con itinerari che consentono di appropriarsi del proprio corpo e del ricordo degli affetti più cari.

La Famiglia Brion ha fatto un dono che non è l’arrogante celebrazione di un imprenditore che aveva trovato fortuna a Milano, ma è la consapevolezza che la morte è un passaggio in cui - come ebbe a scrivere Paul Valéry – “le don de vivre a passé dans les fleurs’’.

Mentre riordinavo le immagini per dare conto del prima e del dopo sono rimasto stupito dall’aspetto che le fabbriche offrivano quando sono iniziati i lavori; poi, negli anni del cantiere, mi ha colpito l’attenzione dei visitatori che sembrava non dolersi del decadimento dell’opera; essi si aggiravano tra gli edifici ammalorati con lo stesso entusiasmo e stupore di oggi, ora che i lavori sono terminati.

Negli anni passati il Memoriale aveva conservato la sua straordinaria captazione estetica; al contrario molte opere coeve di architetti famosi si presentano oggi come gusci vuoti, carrozzerie acciaccate… edifici oggetto solo di un’attenzione documentaria e sentimentale.

Quest’architettura poetica - al contrario dell’archi/letteratura commerciale -, si presta a molteplici approfondimenti; essa opera sul visitatore come un seme che dev’essere colto e coltivato in molte visite.
I famosi dettagli di Carlo Scarpa attestano della sua incessante acribia per rinnovare/ritrovare il linguaggio architettonico e funzionano come i petali di un fiore che adescano per suscitare il desiderio di cogliere il nettare.
In quest’avventura del restauro, o meglio del prendersi cura del Memoriale Brion, ho potuto contare sull’Officina dei fratelli Zanon e sulla falegnameria Capovilla, mentre, purtroppo, Eugenio De Luigi e il geometra Bratti ci avevano lasciati e sono stati sostituiti dai restauratori di Martina Serafin, della ditta Leonardo e della Cooperativa Edile di Parma.
Non posso negare che l’incarico del Dott. Ennio Brion mi aveva lusingato ma anche impensierito in ragione dei molti ammaloramenti dei calcestruzzi, degli intonaci e delle parti in legno del padiglione sull’acqua.
I cementi armati erano stati gettati in casseforme degne di un cabinet maker - ebanista - e non di un semplice carpentiere ma a questa incredibile perizia non fece riscontro - da parte dell’impresa Bratti - la conoscenza del calcestruzzo, la nuova pietra del XX secolo perché i ferri affioranti e ossidati erano davvero molto numerosi.

La mia grande apprensione è stata condivisa con il Prof. Paolo Faccio dell’IUAV e dalla sua generosa collaborazione è nata una solida amicizia.Il Memoriale fu gettato in casseforme d’abete non piallato e fu disarmato a strappo senza l’uso di olii; il mantenimento dell’impronta delle tavole era conditio sine qua non che negava qualsiasi ipotesi di coating (= rivestimento) grazie al quale si sarebbero potuti risolvere i problemi dell’ossidazione del ferro.
Alla condizione di dover operare con le mani legate si aggiungeva un altro problema non piccolo: quello di pulire senza spianare.Il primo problema - quello dell’ossidazione dei ferri - è stato risolto con medicazioni puntuali che dovranno essere rinnovate ogni cinque anni; l’altro problema, quello relativo alla conservazione della texture delle tavole è stato risolto con micro sabbiature di polvere di gusci di noce per mitigare l’aggressione spianante del getto di pulizia.
Ciascun edificio ha presentato problemi particolari; essi hanno richiesto prove, periodi di stasi e valutazioni non sempre facili; l’azione è stata guidata dalla frase di Anna Magnani che raccontò di non essersi mai sottoposta a interventi di chirurgia estetica dicendo: "ho impiegato più di cinquant’anni per far crescere queste rughe e ora non voglio davvero rinunciarvi".

Ad oggi se il Memoriale Brion si presenta più ordinato e meno delabré il miglior complimento per il lavoro compiuto non può che essere: sembra proprio che non abbiano fatto nulla.

Così è stato per la cupola in ebano e pero del tempietto, per i difficili intonachi bruno/blu della cappella dei familiari, per i mosaici in vetro e foglia d’oro, per gli intonachi a calce bianca scialbata.
Un grande aiuto è venuto dai 2.200 disegni che il MAXXI ha messo generosamente a disposizione.
L’apporto di questo straordinario corpus è stato fondamentale perché i disegni hanno offerto l’occasione di lavorare a fianco di Carlo Scarpa e di entrare nel processo progettuale delle singole fabbriche. La porta circolare del tempietto - interpretata da alcuni critici come citazione della porta della luna dei giardini cinesi - è ora unanimemente riconosciuta come porta a Omega che bene conviene a un martyrium per l’ultimo transito dopo l’Alfa della nascita.
L’invenzione del candelabro oscillante a fianco dell’altare che apparenta l’aula al rito delle luci della liturgia bizantina è chiaramente spiegata dai disegni autografi non come una vanità formale ma come una necessità… perché Carlo Scarpa si rese conto che la mensa era troppo piccola per accogliere i candelieri…

Il padiglione sull’acqua è stato l’unico edificio sul quale si è intervenuti massicciamente. Questa delicata architettura consta di quattro colonne di ferro unite a forma di vortice per sostenere il cassone in legno e i velari in plywood marino.
Lo studio dei 254 disegni per il padiglione ha consentito di correggere un errore costruttivo che aveva minato il cassone e, non ultimo, di ripescare un dettaglio che il precedente restauro - dell’epoca della visita a San Vito del Presidente Mitterand - aveva trascurato.
L’errore costruttivo riguardava il montaggio delle doghe in larice che Scarpa aveva organizzato secondo un disegno a circonvoluzioni cerebrali - o di portali Torji - e verghe di ebano massiccio a sottolineare le rotazioni dell’impasto.
Le tavole presentavano una gola sui lati lunghi per l’inserimento di un’anima in plywood; avveniva così he il gargame inferiore si riempiva d’acqua che provocava marcescenze e deterioramenti; ora ogni tavola ha il bordo superiore con un incastro maschio e quello inferiore una cavità femmina.
Il dettaglio tralasciato dal precedente restauro era la finestrella con carabottino nel pannello est/ovest; i disegni del MAXXI di Roma e del MAK di Vienna hanno permesso di posizionare correttamente questo particolare.
Il cassone fu completamente smontato e portato a Venezia nella falegnameria Capovilla che disassemblò i pannelli e selezionò tra le 560 tavolette quelle che potevano essere riutilizzate.
Fu necessario integrare molti elementi con nuovo larice e ciò conferì ai nuovi pannelli un terribile effetto a patchwork. Confidavo che il tempo avrebbe fatto la sua parte dato che Carlo Scarpa aveva scelto il larice in ragione della naturale ossidazione color argento, e così è stato.
Era questa una necessità espressiva; se non fosse stata conseguita avrebbe tradito il valore di materia grigia che l’architetto voleva per il coronamento dell’edificio.
I velari a paraocchi sono stati rifatti con plywood marino di nuova generazione e così è stato la decorazione a chiodi di rame.
Ora si può dire che questa macchina ottico/simbolica è coerente con i suoi significati espressivo/analogici.

A nove lustri dai tempi dello studio di Asolo e grazie all’esplorazione dei 2.200 disegni originali, sono convinto che non esiste alcuna decorazione gratuita nell’architettura di Carlo Scarpa.


I piccoli razionalisti che leggono solo l’aspetto funzionale di una architettura senza cogliere il livello simbolico e quello analogico resteranno afasici perché non sono adeguati ad assaporare i valori poetico/sapienziali del Memoriale; ogni sua parte infatti è necessaria e nulla può essere aggiunto o levato senza vanificarne il senso.

Il Memoriale fu progettato con-siderando la sua collocazione nel tempo e nello spazio e questo suo essere cum sidera - cioè correttamente orientato rispetto al sorgere e al declinare del sole - colloca l’esperienza di questo complesso su un piano altro da quello di una banale architettura.

Lo stesso muro di cinta inclinato di 60° è il chiaro annuncio del disvelamento di un’area sacra che vuole forzare il sigillo della terra per affiorare mostrandosi.

Forse solo un poeta può raccontare lo stupore per l’opera di questo architetto del XX secolo che è allievo di epoche lontane.

Trascrivo in calce questo brano dall’elegia Pane e vino di Friedrich Hölderlin

«…ma spesso penso
che è meglio dormire che essere senza compagni
e attendere. E non so che dire che fare
e perché siano poeti in tempi di privazione.
Ma tu dici che sono i sacri sacerdoti del Dio del vino
che migrarono di terra in terra in una sacra notte».

Architetto Guido Pietropoli, direttore dei lavori di restauro del Memoriale Brion

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