01 ottobre 2015
E' difficile sfuggire al fascino morale e intellettuale dell'Enciclica Laudato Si' del Vescovo di Roma. Papa Francesco lancia una sfida a chiunque, credente o non credente, condivida la sorte dei coinquilini del pianeta. Un pianeta esposto al saccheggio, allo scarto e allo spreco, alle manovre e alle culture predatorie di poteri e istituzioni che scippano futuro comune. Un pianeta che non è intrinsecamente nostro. Un mondo di natura e cultura che non abbiamo ereditato dai nostri padri, ma abbiamo preso in prestito dai nostri figli, come ci ricorda una massima di saggezza amerindia cui Papa Francesco è molto affezionato (si parva licet, lo sono anch'io). In una prospettiva teologica, “la terra ci precede e ci è stata data” (§ 67). Di qui, la nostra responsabilità di custodia e coltivazione del “giardino del mondo”. La sfida è radicale e la grammatica dell'Enciclica ecologica e sociale è quella della “semplicità”. I lucidi commenti di Marco Vitale, la lettura laica di Andrea Carandini e le riflessioni appassionate di Giulia Maria Crespi attestano vividamente, nel dibattito aperto sul sito del FAI, la rilevanza della sfida. Condivido molte delle riflessioni svolte e vorrei in questa sede limitarmi a due sole osservazioni filosofiche elementari, tenendo conto della complessità di un'Enciclica che ha generato e genererà senza alcun dubbio un'interminabile sequenza di commenti, approfondimenti e controversie.
La mia prima osservazione ha a che vedere con la tensione fra le prospettive di breve e di lungo termine. Una tensione che è responsabile della possibilità di successo o dell'inevitabilità dello scacco di una seria e plausibile idea di sviluppo sostenibile. Una tensione, infine, che può estendere o contrarre l'ombra del futuro sul nostro presente. La mia seconda osservazione riguarda la questione del rapporto fra mezzi e fini delle scelte, delle condotte e delle azioni. Come ho sostenuto altrove, sembra che a noi accada di convivere con una immensa gamma di mezzi (inegualmente accessibili e distribuiti) e una scarsità di fini. Entrambe le osservazioni sono debitrici nei confronti di alcuni motivi dominanti nelle pagine di Laudato Si'.
L'ossessione del breve termine pervade larga parte dell'economia, certamente larghissima parte dell'economia finanziaria, della politica e della tecnologia. Se l'interesse percepito per le persone o per le imprese o per le agenzie politiche e sociali è l'interesse “immediato”, allora l'idea stessa di sostenibilità collassa. E chi si ammanta, nel discorso pubblico, del riferimento o della dichiarazione di responsabilità nei confronti dello sviluppo sostenibile o mente o si contraddice. Punto e basta. La nozione stessa di sostenibilità presuppone che l'orizzonte temporale delle nostre scelte qui ed ora sia esteso. Che l'ombra del futuro si estenda, quanto più è possibile, sul nostro presente. Ha ragione Papa Francesco quando ci chiede, a livello di governance globale, di rispondere all'invito permanente a pensare a lungo termine (§165). E ha ragione quando ci parla del “dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati” (§ 178) e quando denuncia esplicitamente il prevalere dell'interesse economico immediato, della priorità pervasiva del breve termine, del mercato divinizzato e senza regole (§ 183). L'estensione temporale dell'ombra del futuro sul presente va insieme all'estensione spaziale dello sguardo, all'adozione degli occhi del “resto dell'umanità”. Contraete, sino allo spasimo, i varchi del futuro e non avrete null'altro da guardare che un “noi” claustrofiliaco, in guerra virtuale o reale con altri “noi” tribali. Altro che famiglia umana e umanità condivisa! La terra desolata, ridotta a un “immenso deposito di immondizia” (§ 20), assume l'aspetto spettrale di un teatro in cui sulla scena illuminata si aggirano i pochi potenti di mezzi e, nella penombra, scorgiamo a fatica i molti, i moltissimi coinquilini del pianeta che vivono vite di scarto. Uno dei principi base dell'Enciclica mi sembra essere quello della connessione e della relazione fra le cose (§ 16). Ed è per questo che la conversione a una prospettiva ecologica integrale implica un genuino impegno per la giustizia come equità globale. Solo estendendo l'ombra del futuro sul presente e praticando la virtù della lungimiranza, possiamo pensare alla governance del paniere dei beni comuni globali (§174).
Vorrei concludere la prima osservazione, richiamando l'attenzione sui paragrafi 143 e 232, cui sono direttamente connesse la missione e la stessa ragion d'essere del FAI. Un commento parsimonioso mi permetterà così di passare alla seconda osservazione. L'ossessione per il breve termine riguarda al tempo stesso tanto il nostro modo di pensare e praticare un futuro comune quanto il nostro modo di pensare e praticare il senso del passato. Come il patrimonio naturale, anche il patrimonio storico, artistico e culturale è sotto costante minaccia di perdita e dissipazione. Lo scippo di futuro ci condanna all'erosione del senso del passato, intrappolandoci nella morsa della dittatura del presente. L'ecologia, ci suggerisce l'Enciclica, “richiede anche la cura delle ricchezze culturali dell'umanità nel loro significato più ampio” (§ 143). Qui è in questione l'identità di qualcosa per un “noi” dai confini porosi e variabili. E l'identità ha a che vedere intrinsecamente con legami e relazioni nello spazio e nel tempo. Nel § 232 leggiamo: “In seno alla società fiorisce una innumeravole varietà di asociazioni che intervengono a favore del bene comune, difendendo l'ambiente naturale e urbano./…/ Intorno a loro si sviluppano o si recuperano legami e sorge un nuovo tessuto sociale locale”. L'estensione dello sguardo verso il passato è generatrice di legami e relazioni. E' connessa a questioni di identità. Ha a che vedere con “una storia che si riconosce e si trasmette”. (§ 232).
Ed ecco la seconda osservazione filosofica che, non sorprendentemente, discende dalla prima e connette la questione dell'identità alla relazione fra mezzi e fini. Una cultura dell'interesse immediato consente di mettere a fuoco solo un certo ammontare di mezzi fra loro alternativi. Non lascia spazio alla questione dei fini. I fini sono, per così dire, incorporati nei mezzi. Abbiamo così “troppi mezzi per scarsi e rachitici fini” (§ 203), per citare il vivido linguaggio della semplicità di Papa Francesco. Più precisamente, i fini sono dati e immunizzati rispetto alla riflessione, alla discussione e all'incertezza. Una prospettiva ecologica che si avvale del senso del futuro e del passato prende sul serio la riflessione sui fini e sul senso. Ed è nei vocabolari d'identità che noi possiamo riconoscere una varietà di fini umani. Riconoscendoli, noi riconosciamo con altri e altre noi stessi quali siamo divenuti. Ecco la connessione stretta fra identità e legami, da un lato, e il ritrovato spazio dei fini e del senso dall'altro. Uno spazio plurale, come plurali sono le ragioni di eleggibilità di una vita e i modi di valutarne la qualità, in giro per il mondo (§ 144).
Ora, una delle circostanze in cui può accaderci di provare tutto ciò è l'incontro con la bellezza. La bellezza di un tramonto o di un artefatto, di un'immagine o di un motivo musicale. La bellezza di un luogo in cui ci accade di “sentirci a casa”. Chiunque siamo, ovunque siamo. Si osservi che nell'Enciclica il termine “bellezza” è impiegato con insistenza (in particolare, § 215). Perché l'esperienza della bellezza sospende l'atteggiamento del possesso e del consumo immediato e genera l'atteggiamento del rispetto, della devozione, dell'ascolto e dell'attenzione verso l'altro. O verso l'Altro, nella varietà delle nostre credenze religiose e non religiose. L'esperienza della bellezza, viene da dire, ci consente di rintracciare un qualcosa che vale di per sé, e non un qualcosa che vale come mezzo per i nostri mutevoli scopi. In tempi difficili e opachi, il senso della bellezza sembra suggerire che un altro mondo è possibile. Un mondo in cui valga la pena di vivere vite che hanno senso, quale che sia, per chi le vive. E Laudato Si' ci dice con forza e radicalità che questo mondo possibile non è indipendente dalla nostra concreta assunzione di responsabilità ecologica e sociale.
Di ciò, credenti e non credenti, siamo semplicemente molto grati al suo autore.
Salvatore Veca
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