11 novembre 2024
Solo qualche settimana fa il Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente ha pubblicato l'Emissions Gap Report, il rapporto annuale scritto dai più riconosciuti scienziati del clima del mondo per esaminare le tendenze future.
Il quadro che ne è emerso non è affatto positivo: senza politiche ambiziose per ridurre rapidamente le emissioni, l’obiettivo di limitare il riscaldamento a 1,5 gradi rischia di diventare un miraggio.
La scienza è inequivocabile: bisogna agire. Siamo infatti su una traiettoria che potrebbe portarci a un aumento della temperatura globale fino a 3,1 gradi entro fine del secolo, una soglia che avrà impatti nefasti sul pianeta e sulle persone. Abbassare le emissioni resta la priorità assoluta.
I governi e le delegazioni di 198 Paesi sono quindi riuniti a Baku per discutere le politiche necessarie a orientare il mondo verso un futuro a minori emissioni e sono lì, in particolare, per trovare un accordo su quali e quante risorse economiche mobilitare. Quest'anno sarà infatti il tema della finanza per il clima a dominare i negoziati, perché parlare di clima significa inevitabilmente parlare di economia. L’obiettivo di raccogliere 100 miliardi di dollari all'anno fino al 2025 è stato raggiunto e ora è tempo di discutere il nuovo obiettivo al 2035. I Paesi più vulnerabili chiedono più risorse per affrontare le sfide dell'adattamento e per far fronte ai danni già causati dai cambiamenti climatici, domandando anche la cancellazione del debito e l’introduzione di nuove regole per agevolare l'accesso ai finanziamenti necessari. Se la richiesta verrà accolta, questo significherà una riforma profonda della struttura finanziaria globale e una partecipazione tra pubblico e privato sempre più rilevante e strutturata.
Ma la grande domanda che nei prossimi giorni emergerà con forza sui tavoli internazionali riguarderà i “contributori”: chi finanzierà la lotta contro i cambiamenti climatici? Un tassello fondamentale riguarda la posizione degli Stati Uniti.
Il presidente in pectore Trump ha annunciato la volontà di ritirarsi dall’Accordo di Parigi e dai negoziati internazionali, creando sfiducia e mettendo così in discussione l'obiettivo di contenere l'aumento della temperatura globale entro 1,5.
Gli Stati Uniti, infatti, sono a oggi il secondo maggiore contributore globale alla finanza climatica e il secondo maggiore emettitore di gas serra. “Il riscaldamento climatico è innegabile, ed è una delle minacce più grandi nel mondo attuale e per il futuro del nostro pianeta": è il monito del segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, dopo l'addio degli Stati Uniti di Donald Trump all'accordo di Parigi. "Invito i governi di tutto il mondo a rimanere impegnati nell'attuazione dell'intesa – ha continuato – e per quanto riguarda gli Usa sono convinto che gli Stati, le città, il mondo dell'industria e la società civile scommetteranno sull'economia verde, che è l'economia del futuro".
Se da una parte si segna l’uscita degli Stati Uniti, dall'altra i Paesi si preparano a discutere su come "allargare la base dei contributori" all'azione per il clima. Era il 1992 quando la Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo di Rio – la “madre delle COP” – aveva stabilito una distinzione tra i vari Stati, basata su responsabilità comuni ma differenziate e sulle capacità economiche di ciascuno di contribuire alla lotta contro i cambiamenti climatici. In pratica, i Paesi più ricchi e storicamente più responsabili delle emissioni erano chiamati ad agire e a finanziare in misura maggiore, mentre quelli in via di sviluppo erano tenuti a intraprendere azioni proporzionate alle loro risorse. Tuttavia, con il trascorrere degli anni, il panorama globale è cambiato in modo radicale. Alcuni Paesi considerati al tempo in via di sviluppo, come Cina, India e Brasile, sono ora economie emergenti: non solo hanno visto crescere il loro peso economico nei mercati internazionali, ma hanno acquisito anche un ruolo centrale nelle dinamiche geopolitiche globali, tanto da diventare attori decisivi nella definizione delle politiche climatiche.
In questo contesto, si rende indispensabile adottare una nuova logica per affrontare la questione dei contributi finanziari, riconoscendo che le sfide climatiche sono ormai una questione collettiva e interconnessa, che richiede un impegno globale e condiviso da parte di tutti i Paesi.
La COP29 rappresenta quindi un'opportunità cruciale per i leader mondiali di invertire la rotta e rompere con i fallimenti del passato. Sarà possibile fare progressi significativi? Solo il tempo dirà se i negoziati porteranno a risultati concreti o se i promessi cambiamenti rimarranno sulla carta. Certamente, ci sono ragioni di speranza per la transizione verso un'economia sostenibile, alimentate da una crescente mobilitazione dal basso: cittadini e comunità stanno promuovendo una nuova cultura in cui la sostenibilità non è più vista come un'opzione, ma come una necessità condivisa e imprescindibile.
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