25 novembre 2019
Nell’ormai lontano 27 ottobre 2005 nella città portoghese di Faro fu presentata la “Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società”. Dopo otto anni, l’Italia l’ha sottoscritta nel 2013. Ora il Parlamento italiano sta finalmente per ratificarla, al termine di un percorso alquanto accidentato anche in questa legislatura, dopo i tentativi fatti già nella precedente. Il testo è stato approvato di recente a larga maggioranza nell'Aula di Palazzo Madama con 147 voti favorevoli, 46 contrari e 42 astenuti (a favore M5S, Pd, Iv, Leu, contraria la Lega, astenuta Forza Italia). Il testo, pertanto, è stato trasmesso alla Camera per la seconda lettura.
Nel frattempo la Convenzione è stata sottoscritta da 24 paesi membri del Consiglio d’Europa ed è stata ratificata da 18 Paesi: Armenia, Austria, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Finlandia, Georgia, Lettonia, Lussemburgo, Montenegro, Norvegia, Portogallo, Moldova, Serbia, Slovacchia, Slovenia, ex Repubblica Jugoslavia di Macedonia, Ucraina e Ungheria. Si attende ancora la ratifica di Albania, Belgio, Spagna, Bulgaria e San Marino, oltre all’Italia. Tra i paesi che non hanno né firmato né ratificato ci sono, fra gli altri, alcuni paesi importanti come la Francia, la Germania, il Regno Unito e la Federazione Russa.
La Convenzione di Faro presenta notevoli caratteri di novità, a partire dalla stessa concezione del patrimonio culturale, che nella legislazione italiana, erede delle norme definite nel corso del Novecento e in particolare nella Legge 1089 del 1939, è ancora oggi legata alla centralità delle “cose”. Si introduce, infatti, una visione estremamente più ampia di patrimonio culturale, inteso come «un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione» e soprattutto affida uno specifico ruolo, una grande responsabilità e un protagonismo prima impensabile alle “comunità patrimonio”, cioè a
«un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici del patrimonio culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future» (art. 2).
È un testo davvero rivoluzionario perché ribalta il punto di vista tradizionale: dell'autorità, spostata dal vertice alla base; dell'oggetto, dall'eccezionale al tutto; del valore, dal valore in sé al valore d'uso e, dunque, dei fini, dalla museificazione alla valorizzazione, come ha efficacemente sottolineato un grande economista della cultura recentemente scomparso, Massimo Montella.
Si segna, in tal modo, il passaggio dal “diritto del patrimonio culturale” (nel quale il nostro Paese ha una lunga e gloriosa tradizione) al “diritto al patrimonio culturale” (nel nostro Paese ancora tutto da affermare). Non sono più, cioè, solo gli specialisti, i professori e i funzionari della tutela a doversi ritenere gli esclusivi responsabili (a volte addirittura proprietari) del patrimonio culturale, ma sono tutti i cittadini, le comunità locali, i visitatori ad assumere un nuovo ruolo nelle attività di conoscenza, tutela, valorizzazione e fruizione. Non si escludono – sia ben chiaro – gli specialisti e i professionisti, come affermano alcuni oppositori. Ma si affida loro un nuovo e più impegnativo ruolo nella società contemporanea, nel rapporto con le “comunità di patrimonio”, con l’associazionismo, con la cittadinanza attiva. Si sottolinea, infatti, che
«chiunque da solo o collettivamente ha diritto di contribuire all'arricchimento del patrimonio culturale» (art. 5).
Si ribadisce in più modi la necessità della partecipazione democratica dei cittadini «al processo di identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione del patrimonio culturale», si attribuisce a tutti un ruolo attivo, riconoscendo il diritto (e il dovere) di partecipare alla conoscenza, alla tutela, alla valorizzazione e alla gestione del patrimonio. Si invitano i Paesi sottoscrittori a
«promuovere azioni per migliorare l’accesso al patrimonio culturale, in particolare per i giovani e le persone svantaggiate, al fine di aumentare la consapevolezza sul suo valore, sulla necessità di conservarlo e preservarlo e sui benefici che ne possono derivare» (art. 12).
Si afferma il diritto, individuale e collettivo, «a trarre beneficio dal patrimonio culturale e a contribuire al suo arricchimento» (art. 4) ed evidenzia la necessità che il patrimonio culturale sia finalizzato all’arricchimento dei «processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale e di pianificazione dell’uso del territorio, ...» (art. 8).
La Convenzione di Faro allarga il concetto di patrimonio culturale anche a «tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi» e impone che il patrimonio culturale vada tutelato e protetto non tanto per il suo valore intrinseco ma in quanto risorsa per la crescita culturale e socio-economica.
Purtroppo la Convenzione di Faro arriva tardi alla ratifica in Italia, come anche in altri paesi europei. Eppure, i principi illustrati a Faro quindici anni fa sono oggi ancor più attuali ed è ancor più urgente che essi ispirino le politiche di tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale, che necessitano di una maggiore partecipazione attiva dal basso. Per questi motivi, il FAI, che fin dalla sua fondazione considera la partecipazione attiva della cittadinanza un elemento caratterizzante del suo DNA, auspica che il Parlamento ratifichi presto questa Convenzione e soprattutto che essa non corra il rischio di essere poi riposta in un cassetto ma che ispiri una profonda revisione delle nostre norme e delle procedure e soprattutto delle mentalità nel campo della tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale, capaci di affrontare i problemi e le sfide del terzo Millennio.
Un’ultima considerazione: la Convenzione di Faro appare perfettamente in linea con lo spirito e la lettera dell’articolo 9 della nostra Costituzione, con la sua innovativa, lungimirante e ampia concezione di tutela del “paesaggio e patrimonio storico e artistico della Nazione” affidata alla Repubblica (cioè, non solo allo Stato, ma a tutte le istituzioni pubbliche, Regioni, Città metropolitane, Province Comuni, e soprattutto all’intera comunità dei cittadini che formano la res publica) e lo stretto legame tra tutela e promozione dello “sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica”.
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