Per una nuova cultura politica del Paesaggio

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Per una nuova cultura politica del Paesaggio
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20 luglio 2016

«Dovrebbe essere naturale in un paese come il nostro che dispone tuttora – nonostante gli scempi perpetrati - di un patrimonio di paesaggi unico al mondo, chiedersi ogni qualvolta si prevedono finanziamenti per l'agricoltura, per le infrastrutture, per lo sviluppo economico, quali accorgimenti si possano adottare affinché il paesaggio non solo non venga danneggiato, ma ne esca qualificato»: con questa preoccupazione Anna Marson, già assessore della Toscana, che è riuscita a far approvare per la propria regione il Piano paesaggistico, interviene nel forum promosso da Fai sulla trasformazione del MiBACT.

Virtù in atto e dubbi in fieri

L'ultima riforma del Mibact è oramai cosa compiuta. Le Soprintendenze Archeologiche sono state accorpate in un'unica Soprintendenza insieme a Belle Arti e Paesaggio, con una corrispondente fusione delle due diverse Direzioni Generali precedentemente presenti presso il Mibact.Per i cittadini, le imprese, ma anche per le molte associazioni che si occupano a titolo volontario della qualità del paesaggio e del territorio avere un unico interlocutore che rappresenta i diversi istituti della tutela dei beni culturali e paesaggistici costituisce senza dubbio un elemento positivo. Questo accorpamento potrebbe costituire altresì (molto dipenderà dalle modalità attuative) un passo avanti significativo nel considerare in modo integrato i diversi aspetti che riguardano il territorio e quindi il paesaggio, fino ad ora invece gestiti in modo settoriale. Integrazione auspicata anche da un recente appello della Società dei territorialisti che pur evidenzia alcune criticità che derivano dalla riforma.Le principali preoccupazioni, per quanto riguarda la nuova organizzazione delle competenze di tutela, riguardano la necessità che dietro questo interlocutore unico ci siano professionalità adeguate, ma anche un effettivo coordinamento fra le istruttorie compiute e i pareri rilasciati su territori afferenti a soprintendenze diverse. Le nuove soprintendenze uniche, nelle quali le diverse competenze possono apparire indebolite, e dei segretariati regionali con compiti prevalentemente amministrativi, non risolvono il problema.La questione si complica ulteriormente se consideriamo come le soprintendenze dovrebbero assicurare anche il coordinamento fra le procedure di autorizzazione riferite ai beni paesaggistici formalmente riconosciuti e la tutela e valorizzazione del paesaggio in generale, ovvero degli aspetti paesaggistici dell'intero territorio. Compito quest'ultimo non soltanto assai diverso dal primo, anche se necessariamente integrato, ma per il quale questi soli soggetti istituzionali sono chiaramente insufficienti.

Paesaggi regionali e paesaggi nazionali

Senza risposte credibili, a valle della riforma rischia di essere totalmente disattesa la presunta centralità del paesaggio. Non si può infatti immaginare che una rinnovata attenzione al paesaggio, e politiche efficaci in materia, costituiscano l'esito automatico dell'aver riunito in un'unica soprintendenza, territorio per territorio, le competenze in materia di archeologia, belle arti e paesaggio, con riferimento a una direzione generale unica.E' forse opportuno ricordare come la nostra Costituzione metta in capo allo Stato tutte le competenze in materia di paesaggio, con un Codice dei beni culturali e del paesaggio che prevede siano le Regioni a redigere i piani paesaggistici (ma lo Stato a validarli). Quindi "tutto" il paesaggio regionale, non soltanto i singoli beni paesaggistici vincolati le cui trasformazioni sono soggette ad autorizzazione paesaggistica.E come esplica il nostro Stato questa competenza? Essenzialmente attraverso il Mibact. Dove vi è un Direttore Generale unico per archeologia, belle arti e paesaggio, e altri dieci Direttori generali che si occupano d'altro.Questo direttore dispone di un solo "servizio" dedicato al paesaggio, i cui compiti vanno dal coordinamento delle attività di tutela del paesaggio alle istruttorie nelle procedure di VIA e VAS (valutazione di impatto ambientale e valutazione ambientale strategica) di competenza statale, dalle intese per i piani paesaggistici alle operazioni di demolizione previste dal Codice, dall'applicazione della Convenzione europea del paesaggio alle azioni di censimento e catalogazione dei paesaggi, dal supporto all'Osservatorio nazionale per la qualità dei paesaggi agli indirizzi per integrare la tutela del paesaggio con la qualità dell'ambiente. Insomma, un semplice servizio che ha, almeno sulla carta, il compito di promuovere e gestire tutte le azioni che lo Stato italiano assume intenzionalmente nei confronti di quel patrimonio unico, estremamente diffuso e ancora scarsamente considerato che è il paesaggio italiano. Anche il miglior direttore del mondo avrebbe qualche problema a garantire con efficacia tutto ciò.Perlomeno per l'archeologia, patrimonio importantissimo del nostro paese e tuttavia non altrettanto complesso e pervasivo del paesaggio, anche con l'eliminazione di soprintendenze dedicate essa mantiene comunque (ed è cosa assolutamente positiva) a livello centrale una strutturazione organizzativa di maggior peso, accompagnata dalla previsione di una Scuola centrale di archeologia finalizzata a qualificare il merito delle istruttorie svolte dalle nuove soprintendenze uniche. Il paesaggio invece non soltanto non ha una scuola, e nemmeno uno dei tanti Istituti "centrali" o "dotati di autonomia speciale" afferenti al Mibact (fra i quali, a titolo esemplificativo, vi sono istituti dedicati ai beni sonori, alla documentazione, alla demoetnoantropologia, e così via), ma sembra essere considerato un esito implicito di altre competenze, come se non fossero richieste conoscenze e modalità organizzative specifiche.Le competenze in materia di paesaggio sono infatti un po' di tutti e di nessuno, anche se i referenti sono generalmente architetti che hanno anche il compito di istruire i pareri su singoli edifici e gestire i cantieri per i musei e altre opere. Bravissimi, si presume, nel loro campo, spesso tuttavia non sempre preparati a valutare efficacemente le previsioni urbanistiche attuative, ancor meno i piani paesaggistici di grande scala, i piani comunali che vi si dovrebbero adeguare, o a gestire altre politiche attive per il paesaggio.

Che fare per migliorare lo stato delle cose?

Mi limito a esporre in termini sintetici quattro linee d'azione, tra le molte possibili, a mio avviso non soltanto tutte importanti ma anche strettamente complementari

  • Partendo dalle principali procedure già in essere, in primo luogo concepire e quindi organizzare la tutela dei beni paesaggistici come servizio ai cittadini: piena accessibilità agli atti di vincolo, alla loro perimetrazione georeferenziata e alle regole vigenti per ciascuno di essi, alle trasformazioni assoggettate ad autorizzazione e ai pareri espressi in merito alle stesse. Alcune singole soprintendenze stanno compiendo passi significativi in questa direzione, altre purtroppo sono ancora estremamente lontane. L'integrazione e unificazione dei sistemi informativi è assolutamente necessaria e urgente, così come la semplificazione degli interventi minori e la chiarezza delle regole che tutti sono tenuti a garantire.
  • Conoscere e rappresentare tutti i paesaggi, regolarne le trasformazioni, riqualificarne il degrado, attivare progetti territoriali di paesaggio è compito dei Piani paesaggistici regionali, da redigersi in copianificazione con il Ministero. Affinché le Regioni provvedano a dotarsene (a oggi i piani approvati sono soltanto quelli di Puglia e Toscana), e i Comuni ad adeguarvisi, è tuttavia necessario costruire una politica per il paesaggio che metta effettivamente i piani (e la loro attuazione) al centro, dando così attuazione all'art.145 del Codice che li prevede sovraordinati a tutti gli altri piani e programmi settoriali. Ciò significa ad esempio differenziare fortemente le semplificazioni in relazione alla presenza o meno di piani paesaggistici, ma anche istituire sistematiche priorità d'accesso alle opportunità progettuali e/o d'investimento in relazione all'esistenza e alla effettiva attuazione dei piani.
  • In Italia l'attuazione dei piani è notoriamente stentata. Questo deficit può essere utilmente trattato concependo la loro impostazione e attuazione non come azione sulle spalle delle sole istituzioni pubbliche, bensì come percorso collettivo cui possono utilmente concorrere le associazioni civiche e della cittadinanza attiva. La loro densità costituisce, come not,o una delle caratteristiche positive di molti territori del nostro paese. In questi ultimi anni, accanto alle associazioni nazionali che si occupano meritoriamente di paesaggio, sono nati moltissimi osservatori del paesaggio locali, o analoghe associazioni che sempre su base volontaria sono attive su questi temi, costituendo di fatto i veri agenti di attuazione della Convenzione europea del paesaggio. Una maggior consapevolezza e capacità, da parte dello Stato nelle sue diverse articolazioni territoriali, a cooperare con queste energie collettive diffuse, come ha iniziato a dimostrare egregiamente l'Osservatorio nazionale per la qualità del paesaggio, può davvero cambiare l'attenzione rivolta al paesaggio nelle infinite trasformazioni quotidiane di cui esso è oggetto, e rendere i piani strumenti vivi.
  • Infine, porsi il problema dell'integrazione del paesaggio nelle diverse politiche pubbliche anche a livello statale. Dovrebbe essere naturale, in un paese come il nostro che dispone tuttora – nonostante gli scempi perpetrati - di un patrimonio paesaggistico unico al mondo, chiedersi ogni qualvolta si prevedono finanziamenti per l'agricoltura, per le infrastrutture, per lo sviluppo economico, e così via, quali accorgimenti si possano adottare nelle politiche, nei bandi, e così via affinché il paesaggio non solo non venga danneggiato, ma ne esca anch'esso qualificato. Ciò richiede una trasformazione innanzitutto cognitiva: considerare i nostri paesaggi non un laccio allo sviluppo, ma un ingrediente fondamentale dello sviluppo possibile e utile. L'attuale Ministro avrebbe le capacità sia politiche che culturali per poter ottenere a questo riguardo qualche risultato interessante.

Per concludere

È sufficiente un insieme di strutture ministeriali per compiere dei passi significativi nelle direzioni indicate? Senza dubbio no, ma ciò che può essere fatto da queste strutture è comunque assai importante. Da questo punto di vista, se la riforma si fermasse alle riorganizzazioni già operate, senza costruire nuove politiche qualificate per il paesaggio, si potrebbe legittimamente argomentare che il paesaggio ne uscirà indebolito, non certo rafforzato. E verrebbe persa un'occasione importante per dimostrare che lo Stato italiano, quando vuole, sa produrre innovazioni interessanti.

    *Anna Marson è professore ordinario all'Università IUAV di Venezia, è stata fra il 2010 e il 2015 assessore all'Urbanistica, territorio e paesaggio della Regione Toscana, unica regione, insieme alla Puglia, ad aver adottato il piano paesaggistico. Archetipi di territorio, edito da Alinea nel 2008 è il suo libro di riferimento.

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