04 luglio 2024
Il ritorno nei campi dei “grani antichi” è il frutto della testarda volontà dei cerealicoltori siciliani di preservare la secolare biodiversità agraria che ha generato numerose varietà di frumento adattatesi ai particolari caratteri dei diversi territori dell’isola, divenendone espressione viva di fertilità.
La coltivazione intensiva dei cereali ha elevato enormemente le rese delle colture (si è passati da 18 q.li/ettaro fino ai 40 attuali) ma ha gravato il bilancio delle aziende agricole di alti costi di produzione per l’acquisto di sementi brevettate, fertilizzanti chimici, diserbanti, e ha avuto gravi conseguenze sull’agroambiente dove ha prodotto drammatici squilibri, primo fra tutti l’impoverimento di sostanza organica nel terreno.
Recuperare le varietà locali a rischio scomparsa, tutelare l’agroambiente con pratiche colturali biologiche, ridare valore alle produzioni per le loro qualità nutrizionali riassaporando il gusto sano di un tempo, sono le principali ragioni che hanno indotto tantissimi cerealicoltori a resistere a un modello colturale insoddisfacente e dannoso, impegnandosi ad affermare una coraggiosa alternativa ecosostenibile.
I “grani antichi” sono così chiamati perché coltivati prima della diffusione delle varietà costituite per la cerealicoltura intensiva, in un tempo in cui i coltivatori, di raccolto in raccolto, selezionavano le sementi per l’anno successivo per qualità e gusto delle loro farine. Sono quindi delle varietà storiche, spesso degli ecotipi locali, che si sono dimostrate efficaci nei diversi ambienti di coltivazione, dalle zone costiere, alla collina interna, fino alle alte quote di montagna, garantendo buone produzioni.
Le varietà sono tantissime, quelle ritornate alla ribalta negli ultimi anni in Sicilia sono i grani Timilia (Tumminia, Diminia, Tummulia, Riminia, Marzuolo), Russello, Strazzavisacca, Perciasacchi, Maiorca, Senatore Cappelli, Bidì (Margherito).
La coltivazione è molto impegnativa. Sono piante che possono essere più suscettibili a certe malattie e hanno rese inferiori ai grani moderni.
Tuttavia, la passione e la dedizione di molti agricoltori stanno assicurando che queste varietà non vengano dimenticate.
Per molti di loro è anche una scelta etica con la quale sostenere la biodiversità agricola e contribuire alla conservazione del patrimonio culturale e gastronomico siciliano.
Uno di questi coraggiosi, e determinati, cerealicoltori, vive e lavora a Licata, in provincia di Agrigento. Si chiama Tony Rocchetta ed è il riconosciuto Agricoltore custode della Chiattulidda, una varietà di grano duro che è stata documentata nel 1895 da Ugo De Cillis, caratterizzata da una maturazione precoce (completa il ciclo a 128 giorni dalla semina) che ben si adatta alle zone costiere per la sua rusticità. A maturità raggiunge i 127 cm, mentre la spiga arriva a 7 cm.
Dopo averne sentito parlare tra gli anziani contadini licatesi, da uno di questi ottenne due chilogrammi di semente, conservata da tempo in magazzino, e dopo averla fatta certificare dalla storica “Stazione Sperimentale di Granicoltura della Sicilia” di Caltagirone, la seminò in una piccola superficie al solo scopo di produrre nuova semente. Tutto il ciclo di coltivazione, dalla semina alla raccolta, è di tipo tradizionale, senza impiego di prodotti chimici e tanto lavoro manuale, come era sempre stato in passato. Il primo raccolto servirà per l’iscrizione nel Registro nazionale delle varietà di conservazione, che riconosce alle aziende custodi delle varietà a rischio di estinzione la possibilità di coltivare e scambiare le sementi tra i produttori in ambito locale, allo scopo di conservare le varietà a rischio erosione genetica.
Quest’anno, lo scambio tra agricoltori è stato fatto con il Giardino della Kolymbethra, dove Tony Rocchetta è stato invitato da Giuseppe Lo Pilato, Responsabile gestione agronomica del Bene FAI, a raccontare la sua storia nel corso di una manifestazione dedicata ai grani antichi, e successivamente a coltivare la Chiattulidda in uno spazio del giardino storicamente dedicato ai seminativi.
Questa piccola superficie, dominata da un maestoso ulivo saraceno, è un prezioso frammento di “seminativo arborato”, ovvero della coltivazione promiscua tra coltura arborea e colture erbacee, un modo geniale per ottenere due produzioni dalla stessa superficie!
È un paesaggio tradizionale altrove andato perduto, fatto rivivere alla Kolymbethra come significativa memoria storica delle campagne siciliane.
I vecchi giardinieri della Kolymbethra hanno testimoniato come nei suoi duecento metri quadri, posizionati in un ambito di grande suggestione paesaggistica, venivano coltivati un anno il frumento e nel successivo la fava, nella virtuosa successione tra cereale e leguminosa. Con il primo si faceva il pane, con la seconda il “macco”, una minestra tradizionale a base di una nutriente purea di fave, entrambi utilizzati per i fabbisogni alimentari delle loro famiglie (autoconsumo), qualcosa che oggi chiameremmo “km. zero”!
La coltivazione della Chiattulidda alla Kolymbethra è un arricchimento della sua biodiversità e serve a tutelare la tradizione e la memoria storica delle nostre campagne.
Il raccolto, a metà giugno, è stata una grande giornata di festa dedicata a tutti gli agricoltori impegnati nella salvaguardia e valorizzazione dei grani antichi.
Sono stati ricavati 18 chilogrammi di semente che continuerà a essere coltivata negli anni a venire per sviluppare una collaborazione con la Stazione di Granicoltura della Sicilia che valorizzerà il progetto di conservazione della biodiversità agraria con altre varietà di grano espressione del territorio siciliano.
Tony Rocchetta quest’anno ha raccolto la Chiattulidda su una superficie di ben cinque ettari e la farina del suo grano, sano e nutriente, macinato in un molino a pietra, diventerà pane e pasta dal buon sapore antico della terra di Sicilia.